Comprendere e insegnare la Shoah …

Comprendere e insegnare la Shoah: coniugare insegnamento politico e insegnamento morale.

di Laura Fontana

 

Quando si parla di Shoah occorre innanzitutto definire l’oggetto della questione, ovvero definire il fenomeno in termini storici, parrebbe banale e scontato, eppure si assiste ancora oggi, soprattutto in molti manuali di testo in uso nelle scuole, a una certa confusione e a un pericoloso amalgama che non aiuta la comprensione corretta degli eventi.

La Shoah – termine ebraico che significa catastrofe, distruzione- è stata l’uccisione programmata e sistematica di almeno 6 milioni di ebrei, attuata in Europa, durante la Seconda Guerra mondiale, dalla Germania nazista e dai suoi collaboratori, in un’indifferenza quasi totale del resto del mondo. È la messa in opera di un gigantesco apparato politico, amministrativo, economico, al servizio di un solo obiettivo: la distruzione degli ebrei. È un genocidio, non il primo nella storia, né l’ultimo purtroppo, poiché solamente 16 anni fa il Ruanda fu teatro di uno sterminio spaventoso, perpetrato in pochi mesi e sotto gli occhi dei caschi blu dell’Onu.

Occorre spiegare ai nostri studenti perché è importante la definizione di genocidio, che è una definizione giuridica e politica, non una definizione morale. Il genocidio è uno dei crimini contro l’umanità, ma non tutti i crimini contro l’umanità sono da considerarsi genocidi. La difficoltà di interpretazione di un evento, come ad esempio la pulizia etnica nei territori della ex Jugoslavia negli anni ’90, sta nella lettura morale ed emotiva che tende a prevalere sull’analisi della natura specifica del crimine.

La pulizia etnica non è un genocidio, ma un crimine di altra natura perché si tratta di una forma brutale di violenza che tende a costringere le persone o determinati gruppi ad allontanarsi da un territorio, mentre il genocidio tende a chiudere le uscite e a uccidere tutti i componenti di un gruppo.

È evidente che non ci sono gerarchie tra le vittime e tra le sofferenze, ma è altrettanto evidente che se non si accetta di riconoscere la specificità di un genocidio rispetto a un altro crimine, si rischia di livellare tutto sullo stesso piano e di annegare nella più piatta banalizzazione.

A tal proposito, lo storico Georges Bensoussan, afferma che il pericolo che si prospetta in futuro, relativamente alla memoria della Shoah, non è il negazionismo, che rimarrà presumibilmente un fenomeno marginale, ma il revisionismo che spinge verso la banalizzazione ed equiparando tutto a tutti, cancella le caratteristiche che invece fanno della Shoah un crimine senza precedenti.

Senza precedenti, cioè un evento singolare come Hanna Arendt non mancò di sottolineare fin dagli anni Sessanta, ma non per questo un evento senza radici, piovuto dal nulla come un meteorite impazzito. Auschwitz non è stato creato nel deserto del Sahara ma nel cuore dell’Europa abitata e i nazisti non sono esseri strani venuti dal pianeta Marte.

La comparazione è uno dei metodi sui quali la storia fonda la propria indagine. Tuttavia, la comparazione ha senso storicamente se si comparano eventi della stessa natura. Se si tenta di paragonare eventi, crimini totalmente diversi, si rischia di non vedere più la specificità e dell’uno e dell’altro. I genocidi sono certo comparabili, e la comparazione è il metodo che permette di far emergere la singolarità della Shoah, pur nelle sue affinità con altri stermini.

Se prendiamo, ad esempio, il genocidio degli Armeni o quello dei Tutsi, vediamo che una differenza importante è che la Shoah non ha limiti geografici. Per gli Armeni, sono stati assassinati gli Armeni della Turchia, mentre altrove i bambini sono stati sottratti alle famiglie, sradicati completamente e islamizzati. I nazisti, invece, volevano uccidere fino all’ultimo ebreo sulla faccia della terra; si dimentica, nei numeri delle deportazioni delle grandi comunità, che i carnefici sono andati a cercare persino quei pochi ebrei che si trovavano sulle isole anglo-normanne e avevano progetti per catturare e uccidere anche quelli che vivevano ad esempio a Shanghai e in Palestina.

Un altro paragone spesso fatto impropriamente è con i massacri commessi nei territori dell’est d’Europa ai danni delle popolazioni civili non ebree. Il programma di occupazione di questi territori fu costellato da massacri e violenze di grande brutalità. La popolazione polacca e i soldati sovietici furono tra le prime vittime di una politica nazista spietata. Tuttavia, quello che accadde a est non fu un genocidio, perché lo scopo del progetto imperiale nazista era conquistare, sfruttare e germanizzare quei territori, schiavizzando interi gruppi di persone ed eliminando quelli che erano considerati inutili. I massacri non furono progettati per sradicare tutta la popolazione polacca, furono il mezzo di una politica di dominio e ripopolamento.

La Shoah invece, come del resto un genocidio, non ha un fine, ma è un fine in sé, non ha cause, ha delle radici intellettuali e politiche, un terreno culturale che prepara le menti degli assassini, come dice Bensoussan nella sua analisi in Genocidio, una passione europea.

Con il genocidio, i nazisti non perseguivano nessuno scopo pratico: né il possesso dei territori, gli ebrei non avevano uno Stato, né dei beni, le comunità ebraiche soprattutto quelle a est e in Grecia erano piuttosto povere, ma nemmeno lo sradicamento dell’ebraismo come religione.

Uccidere con un sistema così organizzato ed efficiente comportava un tale spreco di risorse economiche, tecnologiche, militari, industriali da rendere sproporzionato qualunque tentativo di arricchirsi sfruttando gli oggetti delle vittime, oltre a essere totalmente controproducente in senso bellico (la priorità per la Germania fu il genocidio degli ebrei, non la battaglia militare). Per i nazisti, l’ebreo è un problema biologico, una questione di sangue infetto, di razza maledetta e satanica, di virus pericoloso e letale.

L’odio ossessivo e totalmente irrazionale per gli ebrei, visti con una lente deforme che inventa l’immagine del nemico è tale da risultare paranoico e apocalittico (Philippe Burrin), tanto che uccidere gli ebrei diventerà una questione di sopravvivenza della razza ariana e della civiltà europea, un male necessario da compiere.

L’unica motivazione che sta alla base del progetto di genocidio è ideologica.

Oggi che quasi tutti i Paesi europei e molti Paesi del mondo, dagli Stati Uniti a Israele, hanno un Giorno nazionale della memoria della Shoah, quasi sempre il 27 gennaio, assistiamo a un moltiplicarsi di iniziative attorno a questa ricorrenza, a una tale mole di studi, saggi, opere che escono continuamente su questo argomento che potremmo ritenere la storia del genocidio degli ebrei un evento compreso dalla maggioranza. In realtà, numerosi sono ancora gli errori di interpretazione e i pregiudizi, dovuti principalmente a una scarsa conoscenza storica e a una altrettanto scarsa comprensione politica oltre che morale dell’evento.

Viviamo in un’epoca in cui non solo il processo di conoscenza pare basarsi più sulla visione di immagini che sulla lettura di testi scritti, ma la conoscenza di un evento viene comunemente confusa con la sua comprensione.

La maggior parte della gente comune conosce, o crede di conoscere, come sono stati uccisi gli ebrei e cosa sono stati i ghetti e i lager, una convinzione così rassicurante da produrre spesso un sentimento di vaga e malcelata irritazione quando si parla “ancora” di Shoah, eppure ben pochi si sforzano di comprendere la portata e le conseguenze politiche per il nostro presente di una catastrofe simile.

Uno degli errori più frequenti, favorito anche dalla scarsa qualità di molti libri di testo o trasmissioni a scopo divulgativo, è quello di amalgamare il destino di tutte le vittime del nazismo, soprattutto quando si parla di deportazione e di lager. La storia del Terzo Reich è stata contrassegnata da numerosi crimini, con milioni di persone discriminate, offese, imprigionate, torturate, schiavizzate, molte delle quali barbaramente uccise con vari metodi, persone che il regime nazista ha voluto colpire in quanto considerate nemici pericolosi, elementi inadatti o inutili alla costruzione del grande impero tedesco, ritenute di razza inferiore o con caratteristiche fisiche o morali incompatibili con la cosiddetta Volksgemeinschaft e con lo “spirito ariano”.

Ma se la memoria del nazismo deve ricordare tutte le categorie perseguitate dal regime hitleriano, la Shoah è la storia del genocidio degli ebrei, non dei campi di concentramento e nemmeno, in genere, della deportazione. Tanto per fare solo un esempio, non c’è mai stata nella politica nazista un progetto di deportare e internare tutti gli omosessuali o tutti i Testimoni di Geova di tutti i Paesi dell’Europa occupata. D’altro canto, occorre sgomberare subito il campo da un altro equivoco in cui spesso si cade: l’universo concentrazionario, da Dachau a Mauthausen per citare solo due nomi di KL molto conosciuti, non c’entra con il progetto di messa a morte degli ebrei.

I lager, vale la pena ricordarlo, vengono istituiti fin dai primi mesi del 1933 per imprigionarvi e rieducare i Tedeschi ostili al nazismo, cioè inizialmente per gli avversari politici. Negli anni seguenti vi saranno destinate altre categorie, come i criminali comuni, gli omosessuali, gli alcolizzati, i vagabondi, i Testimoni di Geova, fino ai Rom e ai Sinti, ma non va confusa la politica di repressione del regime – che fino allo scoppio della guerra è rivolta essenzialmente all’interno della stessa società tedesca, che va “ripulita” degli elementi scomodi, va compattata, omogeneizzata ideologicamente e biologicamente, con la politica di persecuzione degli ebrei che segue un percorso totalmente distinto.

Spesso questo errore di confondere tutte le vittime in un’unica categoria e in un unico destino deriva dal fatto che molti traggono la maggior parte delle informazioni e soprattutto basano la propria conoscenza concentrandosi sulla fine dell’evento stesso, ovvero quelle immagini terrificanti di cumuli di cadaveri trascinati dalle ruspe che abbiamo tutti visto nei filmati girati alla liberazione dagli Alleati anglo-americani. Ecco allora che Bergen Belsen, che era un campo di concentramento, mostra ebrei e non ebrei insieme, uniti dalla stessa sofferenza, il che ci induce erroneamente a credere che le vittime ebbero tutte un identico destino. In realtà i percorsi e soprattutto le ragioni della deportazione furono molto diversi ed è molto importante, ad esempio quando si analizza una foto, una testimonianza o si guarda un filmato, soffermarsi con precisione sul luogo esatto a cui si fa riferimento, al contesto (ad esempio quando e da quale fonte proviene l’informazione?) e soprattutto la data.

Buchenwald nel 1938 non è Mauthausen nel 1940, ad esempio, quando la mortalità tra i deportati nei lager diventa molto alta anche in ragione del fatto che il lavoro schiavo diventa uno strumento di annientamento più che di produzione.

La precisione e il rigore sono indispensabili quando si fa storia per qualunque argomento, ma con la Shoah a maggior ragione perché ci troviamo di fronte a un evento che tutti, giovani e adulti, affermano di conoscere, ma che a ben guardare, ben pochi studiano e mostrano di avere compreso.

È bene tener presente che gli ebrei che si trovarono a vivere in un paese occupato o sotto la sfera della Germania nazista rimasero estranei all’universo concentrazionario, cioè non entrarono nei campi se non in quattro momenti specifici che vanno richiamati:

1) prima del 1938 vengono imprigionati nel lager solo pochissimi ebrei tedeschi, che il regime intende punire non in quanto ebrei, ma come rappresentanti di determinate categorie da ostracizzare (ad esempio

ebrei comunisti o ebrei criminali o ebrei omosessuali).

2) Nel novembre 1938, a seguito dell’ondata di violenza scatenata dal partito nazista nella notte tra il 9 e il 10 del mese, sia in Germania che nell’Austria già annessa al Reich, vengono arrestati e inviati nei campi di concentramento circa 30.000 ebrei. Si tratta principalmente di uomini adulti, internati a Buchenwald e Sachsenhausen e poi rilasciati tra il 18 novembre e la primavera 1939, in cambio dell’assenso scritto a emigrare definitivamente insieme alla loro famiglia.

3) Durante la guerra, cioè nel periodo settembre 1939-novembre 1944, solo una minima parte degli ebrei che cade sotto le mani dei nazisti viene immatricolata nei campi di concentramento e adibita al lavoro coatto per le industrie del Reich, soprattutto industrie di armamenti e questo avviene soprattutto nel corso del 1942, quando l’assassinio degli ebrei polacchi si è già quasi completamente compiuto e quando la resistenza sovietica rende indispensabile salvare almeno una piccola percentuale delle vittime per sostenere lo sforzo bellico. Tale percentuale aumenterà dal novembre 1944, quando Himmler diede ordine di sospendere le operazioni di gassazione e i massacri sistematici. La selezione tra gli ebrei abili e inabili per il lavoro fu un fenomeno marginale nella storia della Shoah e riguardò principalmente il campo di Auschwitz-Birkenau che aveva la duplice funzione di centro di sterminio e di campo di concentramento, con tutta la sua vasta rete di sotto-campi.

Primo Levi e Liliana Segre, per fare due nomi molto noti di sopravvissuti italiani, furono selezionati all’arrivo sulla rampa ferroviaria di Birkenau e inseriti in squadre di lavoro. Il 90% degli ebrei catturati dai nazisti viene, invece, condannato alla morte immediata, per fucilazione di massa nei territori dell’Urss o in appositi centri di messa a morte installati sul territorio polacco, i cosiddetti campi dell’Aktion Reinhard, Chelmno, Belzec, Sobibor e Treblinka.

Questi campi non erano nemmeno dei lager in senso stretto, poiché le vittime venivano uccise per asfissia appena scese dai treni, non c’era selezione all’arrivo, né immatricolazione col tatuaggio, erano luoghi di assassinio relativamente piccoli rispetto alla superficie dei campi di concentramento, appunto perché comprendevano solo le strutture essenziali legate alle uccisioni sistematiche. Venivano risparmiati per alcuni giorni solo alcuni deportati che dopo essere stati costretti a occuparsi di mansioni diverse (es° raccogliere e ordinare i vestiti e gli oggetti delle vittime, occuparsi dei cadaveri, ecc), venivano a loro volta uccisi e rimpiazzati da nuovi arrivi, affinché il segreto del crimine non si tramandasse.

4) Dall’autunno del 1944, in coincidenza dell’avanzata dell’Armata Rossa da est, i nazisti decisero di evacuare i campi situati più a ridosso del confine orientale e costrinsero i prigionieri in grado di reggersi in piedi a estenuanti trasferimenti, in condizioni terrificanti, tanto da meritare il nome di “marce della morte”, per raggiungere i lager situati più all’interno del Reich, soprattutto Bergen Belsen e Ravensbrück al nord, oppure Mauthausen in Austria, dove tra migliaia di ebrei evacuati da Auschwitz arrivano rispettivamente Anne Frank con la sorella Margot, Liliana Segre e Shlomo Venezia.

Ecco allora che quando guardiamo i filmati girati alla liberazione, in questi campi troviamo, fianco a fianco, ebrei e non ebrei. Ma si tratta, appunto, di una circostanza precisa e soprattutto di un periodo limitato nella storia dei lager, soprattutto ha riguardato una minoranza tra le vittime.

Deve essere sottolineato il fatto che la maggior parte delle vittime della Shoah non è mai entrata in un campo di concentramento: almeno un terzo delle vittime, cioè circa 2 milioni di ebrei, soprattutto russi, sono stati assassinati in fucilazioni di massa per opera dei battaglioni detti Einsatzgruppen, che non incominciano ad uccidere sistematicamente dopo l’invasione dell’Urss, cioè dal 22 giugno 1941, ma fin dall’aggressione alla Polonia. Infatti dall’ottobre 1939 a febbraio 1940, oltre a migliaia di ebrei polacchi rastrellati e uccisi come resistenti, queste unità mobili di massacro uccidono 60.000 Polacchi non ebrei (professori universitari, giornalisti, sindacalisti, studenti, preti) allo scopo di soffocare qualunque tentativo di resistenza all’occupazione.

Centinaia di migliaia di ebrei muoiono ancora prima della deportazione, di fame, di malattia, di stenti, per le inumane condizioni dei ghetti (solamente nel ghetto di Varsavia, in meno di due anni, dal novembre 1940 al luglio 1942 muoiono almeno 80.000 persone, mentre a Lodz, dove le condizioni furono in un certo senso migliori poiché fu il ghetto che i nazisti lasciarono aperto fino all’agosto 1944 in ragione della sua alta produttività, morirono di fame almeno 50.000 persone.

Inoltre, almeno 2 milioni di ebrei furono assassinati nei centri di sterminio dell’Aktion Reinhard, così ribattezzata in onore di Reinhard Heydrich, incaricato di coordinare organizzativamente il genocidio, dopo che questi venne ucciso a seguito di un attacco dei partigiani cechi alla fine di maggio 1942.

Ritorniamo al concetto che non ci sono cause alla Shoah, così come non ci sono cause per un evento storico. Una preoccupazione didattica che dovrebbe starci particolarmente a cuore nel preparare la lezione su Auschwitz dovrebbe essere quella di spiegare ai nostri studenti che la Shoah non era affatto un evento inevitabile. Vale a dire, abbandonare quella visione deterministica della storia che ci fa credere erroneamente che ci siano state dei motivi reali per giustificare il realizzarsi del genocidio. Non ci sono cause per un genocidio, né per un qualunque altro evento storico, ci sono, invece, delle origini, delle radici, degli elementi significativi, dei germi che se attecchiscono preparano un terreno culturale e politico propizio alla messa in atto del crimine, ma soprattutto ci sono delle responsabilità individuali e collettive precise.

Non dobbiamo, dunque, cadere nella domanda che fanno spesso i ragazzi, “ma cosa avevano fatto di male gli ebrei per essere tanto odiati?”. Un rischio che occorrerebbe evitare nel fare un corso di storia sulla Shoah è quello di far coincidere la storia dell’ebraismo con la storia dell’antisemitismo, vale a dire una lunga serie di persecuzioni che vedrebbero gli ebrei come vittime predestinate, con un destino immodificabile che dall’antigiudaismo dell’Antichità condurrebbe in linea diretta, una tappa dopo l’altra, al genocidio. Anche qui, bisogna insistere con i nostri studenti nel demolire quell’immagine stereotipata e ben radicata nell’immaginario comune che vede l’ebreo come vittima eterna e che tende a far coincidere la persona con il gruppo (gli ebrei sono sempre gli stessi, sono tutti uguali, ecc.).

Certo, l’antigiudaismo di matrice cristiana ha una pesante responsabilità nell’aver diffuso per secoli il pregiudizio contro gli ebrei, l’antisemitismo è stato in Europa un vero e proprio codice culturale, un sistema di credenze basate sull’idea di quello che si crede essere l’ebreo, cioè l’incarnazione di un essere demoniaco, pericoloso, corrotto, subdolo.

L’emancipazione che arriva in Europa dopo la Rivoluzione, in realtà non risolve completamente la cosiddetta “questione ebraica” perché dal punto di vista degli antisemiti gli ebrei, anche se cittadini come gli altri, non possono essere considerati affidabili, leali, sinceri. Tutto l’antisemitismo si basa sull’idea del complotto giudaico. Tuttavia, la Shoah non ha nella giudeofobia l’unica radice, ce ne sono molte altre, a testimonianza che si tratta di un evento che arriva da lontano, dal retaggio del colonialismo, dall’esperienza della Prima Guerra mondiale che spinge sempre più in là il confine tra lecito e illecito in battaglia, che brutalizza le coscienze, ma soprattutto una radice importante e poco studiata in Italia è il peso dell’Anti-Illuminismo, cioè di quella corrente di pensiero che nasce tra Settecento e Ottocento con il darwinismo sociale. L’Anti-Illuminismo è credere che sia possibile applicare al genere umano le leggi che regolano gli animali, soprattutto in termini di selezione e di lotta del più forte sul più debole. La Shoah non può essere compresa se scissa dal programma T4, ovvero il programma nazista che uccise centinaia di migliaia di handicappati e malati tedeschi, in nome di una visione biologica dell’umanità che riduce l’individuo a un corpo, il gruppo a una popolazione e il governo degli uomini a una gestione della popolazione. E ridurre un essere umano al concetto di corpo significa distinguere tra corpo sano e corpo malato, tra corpo produttivo e corpo improduttivo, tra corpo utile e corpo inutile. La genesi della Shoah sta proprio nell’idea che sia possibile per una parte dell’umanità ergersi a giudice supremo e selezionare coloro che sono degni di vivere rispetto a coloro che devono essere uccisi per il bene comune.

Un altro errore che solitamente accomuna molte spiegazioni della Shoah e soprattutto molte lezioni fatte in classe è quello di interpretare la Shoah come il vertice della modernità industriale, identificando il genocidio stesso nella storia di Auschwitz-Birkenau, divenuto il simbolo per antonomasia dello sterminio degli ebrei, sia per il numero delle vittime, più alto di qualunque altro luogo della “Soluzione finale” (oggi gli storici concordano nel ritenere il numero delle vittime compreso tra 1.100.000, calcolato per difetto, a 1.350.000 calcolato per eccesso) sia per l’enorme capacità tecnologica di uccidere su vasta scala.

Perché è un errore ridurre l’interpretazione della Shoah alla modernità industriale del genocidio?

Per varie ragioni che tenterò di sintetizzare, richiamando un celebre adagio cinese che così recita: conoscere la fine non ci aiuta a comprendere l’inizio.

Innanzitutto, va sottolineata una scarsa conoscenza delle tappe fondamentali con le quali viene pensato e realizzato il genocidio. L’ossessione su Auschwitz e la fretta con la quale molti percorsi storici vengono realizzati nelle scuole, più che come lezione di storia vera e propria, come propedeutica a un viaggio ad Auschwitz, rischiano di farci perdere di vista il fatto che almeno la metà delle vittime è stata uccisa nel corso di un solo anno, il 1942, dunque prima del funzionamento di Birkenau (i grandi crematori entrano in

funzione uno dopo l’altro nella primavera del 1943, quando la maggior parte degli ebrei polacchi è già stata uccisa). C’è poi un’ossessione morbosa per il dettaglio, per il macabro, molto diffusa nei nostri giovani e rispetto alla quale dobbiamo stare in guardia. Il fatto di uccidere degli esseri umani col gas è qualcosa di inconcepibile, di angosciante, ma c’è anche una pericolosa attrazione per il male. Allora Auschwitz non può essere inteso solamente come il punto più evoluto, in negativo, della tecnologia moderna, perché il problema, nel trasmettere la Shoah, non è tanto quello di porre l’accento sull’invenzione del gas come mezzo di uccisione, ma dell’uomo che accetta di buttare il gas per uccidere altri esseri umani, dell’uomo che non riconosce l’altro come appartenente allo stesso genere e lo distrugge come se fosse un insetto da debellare e sradicare dalla faccia della terra. Dell’affermarsi del concetto di biopolitica che tende a eliminare una minoranza come si amputa un corpo malato da un cancro. Perché ad Auschwitz non c’è morte, in quanto la morte fa parte della nostra vita, è una nozione inerente la condizione umana. Nelle camere a gas non è stato ucciso solo il popolo ebreo, ma quello che è accaduto è la distruzione di persone come fossero scarafaggi, in un annientamento totale dell’identità della vittima e del proprio cadavere che deve farci pensare alla distruzione del concetto stesso di umanità.

Il genocidio viene perpetrato cancellando sistematicamente ogni traccia dell’esistenza della vittima, sottraendola alla dimensione della morte per scaraventarla in quella della sparizione totale. Auschwitz, dunque, va spiegata come una delle possibilità del genere umano, di un’umanità che ha mostrato di che cosa è capace, tanto che “Ormai l’immagine dell’uomo è inseparabile da quella della camera a gas”, come ha ben sintetizzato il filosofo francese Georges Bataille.

Ed è questo che deve angosciarci quando ci occupiamo dell’argomento, sapere che se è accaduto, potrebbe accadere di nuovo, che siamo tutti in pericolo, non siamo al riparo dalla barbarie.

Ma vi sono ancora altre ragioni per rifiutare l’identificazione Shoah-Auschwitz o comunque Shoah-Treblinka e i centri di sterminio intesi come l’incarnazione della modernità tecnologica che prevale rispetto a metodi di uccisione più rudimentali e meno efficaci.

Per molto tempo gli storici occidentali, almeno fino alla chiusura degli archivi sovietici che sono rimasti indisponibili fino alla fine degli anni Ottanta, hanno sottovalutato completamente la portata dei massacri perpetrati dalle Einsatzgruppen. A lungo tempo si è pensato che tali massacri furono limitati ai soli territori sovietici e che cessarono quando incominciarono a funzionare le camere a gas dei centri di sterminio di Belzec, Sobibòr, Treblinka, come a sottolineare che anche nel genocidio degli ebrei si sia seguita l’idea del progresso, del perfezionamento tecnologico.

In realtà le fucilazioni di massa durarono fino al 1944 e non riguardarono solo l’Urss ma anche i Balcani, la Polonia dell’est, alcuni territori della Romania. Inoltre, come si è detto, provocarono almeno un terzo delle vittime totali del genocidio.

Grazie anche alle ricerche di un sacerdote cattolico francese, Padre Patrick Desbois che ha dedicato anni della sua vita a fare ricerche a est per individuare i luoghi delle esecuzioni, interrogare i testimoni dei massacri e provare a stabilire un bilancio delle vittime (è partito da una constatazione semplice, se la morte è avvenuta per fucilazione, i bossoli devono ancora essere presenti nel terreno, li ha cercati e contati) oggi sappiamo che questo genocidio avvenne sotto gli occhi di tutti, con la presenza e la partecipazione di migliaia di testimoni tra la popolazione locale, ucraina, lettone, lituana, romena. Si pensi ai contadini che scavarono le fosse o sistemarono i cadaveri, alle contadine chiamate a cucinare per gli assassini, a chi raccoglieva i vestiti e li smistava, chi doveva cantare per coprire i suoni degli spari, ecc.

Non come abbiamo sempre creduto, un genocidio commesso a est, nei boschi e in territori disabitati e deserti, ma un genocidio commesso sì a est, ma vicino ai centri abitati, anche se fuori dal perimetro delle città, senza curarsi di nasconderlo alla gente che sentiva, vedeva, assisteva ai massacri.

Lo stesso Padre Desbois ha coniato una definizione, respinta da molti storici tra i quali i miei colleghi francesi del Mémorial, di Shoah par balles, cioè di Shoah per fucilazione di massa, mentre in realtà Shoah è il nome che si dà all’intero evento. Si tratta di un metodo di assassinio che comporta una vicinanza immediata tra carnefice e vittima, il che rappresenterà uno dei problemi da risolvere poiché almeno il 20% degli assassini rimasero psichicamente sconvolti da queste fucilazioni ininterrotte di uomini, donne e bambini, di un metodo di vecchio stampo, nel senso che il carnefice va a cercare la sua vittima e la uccide, mentre per lo sterminio col gas la vittima viene condotta anche con un lungo viaggio verso un luogo lontano, adibito alla sua uccisione.

Ecco allora che questa Shoah avvenuta con un metodo arcaico rispetto alla modernità della camera a gas combinata con il forno crematorio, ha funzionato in piena regola e a pieno ritmo anche contemporaneamente all’avviamento dei centri di sterminio. Cioè un metodo non escluse l’altro, come erroneamente molti pensano. Laddove i territori occupati dai nazisti e popolati da ebrei non possedevano una rete ferroviaria adeguata a mettere in atto le operazioni di deportazione verso i centri di sterminio, lo sterminio avvenne sul posto, principalmente mediante fucilazione, ma non solo, anche con altri metodi individuati grazie alla creatività e all’iniziativa dei carnefici (come ad esempio in Ucraina dell’est migliaia di ebrei vennero gettati vivi in pozzi profondissimi, in Crimea gettati dall’alto di una rupe, oppure chiusi in chiese o fienili e bruciati vivi), a sottolineare come non ci fu dal vertice un’unica linea guida per il genocidio, ma invece un’idea di base di eliminare tutti gli ebrei e dal basso, dai vari territori occupati e soprattutto dai vari livelli della gerarchia nazista, da Himmler e Göring, da Heydrich a Eichmann, da Globocnik a Goebbels, un fiorire di idee e di soluzioni nel concretizzare tale idea e compiacere il Führer, anche in una competizione fra i gerarchi per conquistarsi il potere.

Infine, va detto che l’unicità di Auschwitz-Birkenau e l’identificazione Auschwitz-Shoah (identificazione che occulta, come si è appena detto, tutto quanto è avvenuto prima del 1943) intese come l’apice di un percorso di uccisione che da mezzi arcaici (la fucilazione) è giunto al progresso tecnologico (la creazione dei grandi Krematorien di Birkenau, capaci di abbinare uccisione e distruzione del cadavere in un’unica struttura), rischia di individuare nella modernità l’unica caratteristica della Shoah, anzi la caratteristica per antonomasia di questo genocidio senza precedenti. Il che, da un lato, è vero, se si pensa alla produzione di cadaveri realizzata proprio a Birkenau su scala gigantesca (perché di produzione si tratta, si pensi all’uso del crematorio così come era concepito dai nazisti, le vittime vi entravano vive da una porta e ne uscivano dopo poche ore sotto forma di cenere, in un processo di messa a morte e di trasformazione della materia del tutto industriale). D’altro canto, l’elemento chiave su cui insistere che rappresenta – più della modernità –la radicale novità della Shoah, sta, a mio avviso, in quell’antinomia tra razionalità e irrazionalità, modernità e arcaismo, con la quale tale fenomeno venne realizzato. Vale a dire, il contrasto tra un’accurata e metodica amministrazione burocratico-razionale, e il movente totalmente irrazionale, quell’antisemitismo paranoico, ossessivo e apocalittico che ha fatto sì che gli ebrei diventassero, agli occhi dei nazisti e dei loro collaboratori, il male assoluto. Gli ebrei, è bene ricordarlo, sono stati uccisi per la sola colpa di essere nati. La Shoah, come del resto gli altri genocidi, è stata un fine in sé, non un mezzo per ottenere qualcosa (ad es° la conversione religiosa, l’espropriazione dei beni, la conquista di un territorio…).

Dobbiamo saper spiegare agli studenti, senza timore di complicare la lezione su Auschwitz. che nella politica nazista si mescolano arcaismo e modernità. Al millenarismo medievale dell’Impero tedesco si unisce la modernità, che si esplica attraverso l’affermazione di un potente apparato statale, quell’apparato che, tramite la burocrazia, l’organizzazione logistica, la copertura legislativa, permetterà al pensiero antisemita di concretizzarsi in genocidio. Giustificati dal poco tempo a disposizione, talvolta tendiamo a semplificare per timore che i nostri ragazzi non capiscano i troppi piani di lettura che la Shoah richiede.

La Shoah, che ci piaccia o no, sovverte i nostri modelli di pensiero, mette in crisi la nostra fiducia nella capacità raziocinante di comprendere a fondo un evento così mostruoso, i classici concetti della cultura umanistica impartita nelle scuole. La Shoah è un evento molto difficile da pensare, le categorie razionali, i modelli di pensiero ai quali siamo abituati non sono sufficienti per comprendere. Siamo stati abituati a ritenerci figli dell’Illuminismo, dunque fiduciosi che il progresso porti la luce della conoscenza, migliori le condizioni di vita, affermi i valori democratici e soprattutto tenga a bada la violenza incontrollata e barbara mediante l’educazione civica e culturale.

La Shoah, è una forma di progresso – dice Norbert Elias – perché è una barbarie che si inscrive in un processo di civilizzazione. Più o meno sostiene lo stesso concetto anche il sociologo tedesco Zygmunt Bauman nel suo saggio Modernità e Olocausto, ovvero la barbarie è incisa profondamente nella modernità. Ma quello che non va perso di vista, a mio parere, è che la Shoah è stata una delle possibilità della modernità, ma non era l’unica, ovvero le cose non dovevano per forza andare così come sono andate.

In un determinato contesto politico e a parità di situazioni e condizioni, le istituzioni, i governi, tutti coloro che esercitano una responsabilità pubblica, possono comportarsi in modi diversi. Basti fare un solo esempio: negli anni Trenta, quando si afferma il nazionalsocialismo, il Paese con il più forte tasso di antisemitismo e con un potenziale esplosivo di violenza era la Romania, non la Germania, la Romania che fin dall’Ottocento era stata teatro di feroci pogrom e massacri ai danni degli ebrei.

Invece è stato il Terzo Reich a concepire e ad attuare il genocidio. Indagare la questione del “perché la Germania?” (esiste un Sonderweg nella storia tedesca?) è uno degli elementi chiave della storia della Shoah.

Il tema molto ricorrente di carnefici che uccidevano senza pietà, pur essendo uomini colti, ben educati, di estrazione cattolica,amanti delle belle arti, della musica classica, padri affettuosi e mariti solerti, non deve essere una domanda vuota, ma deve indagare il tema della cultura e del suo rapporto con la barbarie. La cultura non può proteggerci dalla violenza, dal crimine, cioè non è la nostra cultura che può garantirci quale condotta etica tenere. Non dobbiamo confondere, come insegna Bensoussan, cultura e pensiero, cultura e civilizzazione. Il pensiero è la capacità critica che io ho di riflettere su quello che so e suquello che faccio, di giudicare il fine dei miei compiti. Hannah Arendt disse giustamente di Eichmann, commentando il suo processo a Gerusalemme nel 1961: “Eichmann non è un uomo stupido, ma un uomo che non ha idee, che non pensa”.

La burocrazia, la catena che frammenta i compiti e delega la responsabilità finale ad un altro, permette a uomini e donne anche molto colti, considerati normali, né pazzi, né sadici, di partecipare al crimine. Compilare un certificato, organizzare un treno, arrestare una famiglia, è considerato un compito, l’obbedienza a qualcosa che non si è deciso ma sul cui sistema non ci si interroga.

Ecco allora che dobbiamo riflettere su come l’ideologia nazista abbia permeato le masse – oggi vediamo del nazismo (ma anche del fascismo) un unico aspetto, la repressione, occultando completamente tutto il potere di seduzione, di adesione che tale movimento ha esercitato sulla gente.

Bisogna interrogarsi su come degli uomini comuni, bravi padri di famiglia, si siano trasformati in carnefici, in freddi burocrati-assassini. Questo è un punto centrale per una discussione che affronti il funzionamento del meccanismo di gruppo quando l’omologazione, il consenso e il rispetto dell’autorità prevalgono rispetto alla capacità di raziocinio, dobbiamo analizzare le tecniche moderne del potere in una società di massa che tende a deresponsabilizzare l’azione del singolo e a isolare gli individui, rendendoli indifesi rispetto al potere dello Stato e spesso incapaci di agire e di opporsi criticamente.

Sul perché proprio la Germania sia stata la mente che ha pensato al genocidio, occorre insistere sul concetto di modernità reazionaria. La Germania agli inizi del secolo, prima della Grande Guerra, è la prima potenza industriale in Europa, anche negli anni Venti e Trenta ha illustri scienziati, medici, chimici, fisici, molti Premi Nobel vanno a tedeschi. Ma politicamente ha un pensiero arcaico, la democrazia di Weimar è solo una parvenza di democrazia, non si fonda su un vero spirito democratico, la rivoluzione francese dei diritti dell’uomo non arriva in Germania. Modernità reazionaria significa accettare l’idea di progresso della tecnica e dello sviluppo industriale ma rifiutare l’idea democratica dei diritti dell’uomo. Tuttavia, sappiamo bene, come insegnanti, che quando siamo chiamati a spiegare ai nostri giovani che cosa è stata la Shoah, non possiamo limitarci a rievocare gli eventi. Siamo consapevoli che lo studio del genocidio degli ebrei rappresenta unafonte inesauribile di riflessione che tocca tutti gli aspetti della vita umana e il docente sa perfettamente che questo argomento implica un insegnamento che deve essere in grado di andare oltre l’esposizione rigorosa e puntuale dei fatti, arrivando cioè a provocare nei discenti una vera e propria crisi intellettuale. Una crisi che non deve intendersi, ovviamente, come una rivelazione mistica, ma come una predisposizione mentale che apra la mente al dubbio, alla ricerca, all’interrogativo profondo su di sé, sugli altri, sulla società, sui valori. Se la lezione su Auschwitz, per quanto esatta e precisa, dovesse lasciare i suoi destinatari nello stesso stato in cui si trovavano prima di sapere, io preferirei personalmente che la lezione non fosse stata affatto tenuta, perché se essa non ha alcun impatto, non si tratta di una operazione inutile, ma, dal punto di vista della formazione morale e civica del destinatario, è una perdita, afferma Jean-Michel Chaumont, in Auschwitz oblige?, articolo contenuto in un’opera fondamentale sulla riflessione e sulla pedagogia della Shoah, “Insegnare Auschwitz”, edito da Bollati Boringhieri nel 1995.

Ecco però che – nell’epoca delle commemorazioni e del moltiplicarsi dei Giorni della Memoria – assistiamo da più parti a un fastidioso buonismo, a una retorica delle buone intenzioni che tradisce un’immagine oltremodo ingenua della storia, dal momento che Auschwitz non ha redento nessuno e non può ritenersi fondata la convinzione che la memoria sia una garanzia per evitare il ripetersi dei crimini, ovvero una sorta di vaccino per costruire un futuro democratico. Lo slogan “Mai più Auschwitz” ha totalmente perso la sua forza, ripetuto ossessivamente da politici, ex deportati e giovani studenti, rischia di essere un grido che nessuno ascolta più veramente. Perché la lezione morale, la predica sul valore dei diritti dell’uomo, alla lunga, diventa un discorso automatico, che si ascolta educatamente e compostamente nelle commemorazioni, ma che poi si dimentica velocemente. Occorre smettere di sostituire continuamente la riflessione storica e politica con la morale, come se l’insegnamento dei genocidi potesse ridursi a una predica per la tolleranza e la difesa dei diritti umani. La lezione di storia su Auschwitz può declinarsi in lezione morale – evitando l’impasse di quel fastidioso moralismo che comunica con gli studenti al tempo imperativo come una sorta di catechismo laico (Dobbiamo andare e vedere sul posto! Non dobbiamo dimenticare! Dobbiamo diventare sentinelle della memoria!) – solamente nella misura in cui tenti di fornire ai destinatari del nostro insegnamento non solo un senso a un evento inesplicabile nella sua mostruosità, ma anche – e qui sta proprio la sfida educativa da cogliere – una via di uscita possibile alla disperazione che pietrifica. Come resistere al Male? Come vivere sottoposti a un male infinito senza diventare carnefici? Come scegliere il bene pur essendo il male la scelta più facile secondo la logica che tutti lo fanno? (si tenga conto che la Germania nazista prepara la persecuzione degli ebrei tedeschi con tutta una serie di misure legali, in modo che ubbidire a una legge che vieta di assumere ebrei non sia percepito come qualcosa di ingiusto o di immorale, ma al contrario come il rispetto di una norma dello Stato per l’interesse della comunità). Se la storia della Shoah provoca innegabilmente in noi una resistenza tenace, perché pur ritenendolo un evento realmente accaduto nella sua mostruosità, lo consideriamo razionalmente inspiegabile e soprattutto eticamente inaccettabile, l’unica apertura di speranza che possiamo trasmettere come educatori è quella della scelta individuale. La speranza per il nostro futuro sta proprio nella spiegazione centrale dell’insegnamento su Auschwitz: qualunque individuo confrontato con situazioni estreme può scegliere e la sua scelta non dipende mai dalla sua appartenenza politica di destra o di sinistra, né dal suo livello di istruzione o di cultura e nemmeno dalla sua appartenenza etnica o sociale. La facoltà di scelta dell’uomo dipende sempre e solo dalla sua capacità di ragionamento, di sapersi tirar fuori dal gruppo e di ascoltare la propria coscienza. Non è affatto una lezione disperata quella sulla Shoah, al contrario, essa rivaluta pienamente la nostra capacità di saper pensare e di agire di conseguenza. Ai giovani non dobbiamo per forza chiedere di diventare tutti “sentinelle della memoria” o testimoni a loro volta. La lezione di Auschwitz ci chiede altro: rivalutare pienamente la nostra capacità di saper pensare e di agire di conseguenza. Perché nella società contemporanea i germi che hanno preparato il disastro, i massacri di massa, sono ancora qui, potenzialmente fertili.

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