Don Michele Carlotto

Don Michele Carlotto

 

Don Michele Carlotto nasce al Tezzon di Castelgomberto il 3 febbraio 1919. Prete nel 1942, cappellano per cinque anni a Valli del Pasubio, poi in servizio pastorale a Fusine nella Val Posina, cappellano dell’ospedale di Bassano per 25 anni e infine collaboratore di don Dal Lin a San Pio X in Vicenza e negli ultimi anni ad Arzignano.

 

DALLA SERENA GIOVINEZZA AL TURBINOSO FRAGORE DI UNA GUERRA FRATRICIDA

Sono figlio del dopoguerra: la (grande?) guerra 1914-1918. Nacqui nel 1919 in un’antica casa colonica del 1500, al Tezzon di Castelgomberto, sulla strada per Priabona. Ero di natura bonaccione, calmo, meditativo, molto molto sognatore. Tra parentesi: preferisco esserlo un po’ ancora oggi, nonostante le necessarie e inevitabili brinate della vita. Non mi disturba questa caratteristica: anzi mi piace essere ancora sognatore. Spesso mi sorprendo ancora a fantasticare. Forse è la giovi­nezza che non vuoI morire.

La mia infanzia, adolescenza e vacanze di seminarista passarono paci­ficamente in quella casa allineata ad altre due fattorie, una a destra e una a sinistra. Tre abitazioni, tre stalle, tre alti porticati con grandi fienili(“tezze”, da cui Tezzon): il tutto con vasti cortili e orti – frutteti circondati da robuste mura. Le tre fat­torie erano circondate da grandi praterie verdeg­gianti a prato, ai piedi di piccole colline.”

“Di natura non ero certo fatto per le battaglie! Non riuscivo nemmeno a fare il monello: non tiravo sassi, non usavo fionde, non costruivo trappole per uccel­li, non andavo a pescare nel torrente Poscola (avevo paura che i granchi mi mordessero), non rubavo l’uva e non compivo nessuna bravata pro­pria dei ragazzi vivaci. Mi sentivo inferiore a loro: li invidiavo per la loro scaltrezza.

Questa prolungata digressione un po’ nostalgica per dire che, da quel clima sereno e un po’ bucolico in cui ero vissuto nella mia giovinezza, appena prete, a ventitré anni, nel 1942 improvvisamente feci un salto mortale: mi ritrovai immerso in un clima rovente di tensione e nel frago­re di una guerra fratricida partigiana nazi-fascista. Il salto fu enorme! Non ero preparato! Che fare? Potevo rifiutarmi?

E mi misi… dentro, facendomi coraggio, quasi contento di una vita impegnata ed a rischio. Nel furore della lotta sentivo l’importanza (e la bellezza?) di vivere… coraggiosamente. Un detto sapienziale dice: ‘se natura non ti porta, ebbene portati tu!’

Certo rischiai parecchio, tanto che l’arciprete di Valli (che pur ha saputo dare esempio di gesti coraggiosi!) mi disse in un giorno di paura: “Lei non è contento finché non mi fa bruciare la canonica!”.

 

L’ARMISTIZIO CON GLI ALLEATI (8 SETTEMBRE 1943).  LA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA

“L’8 Settembre il segreto armistizio viene portato a conoscenza degli ita­liani. Crolla l’unità d’Italia: il re scappa, si scioglie l’esercito, i soldati scappano al bosco. Fu collasso politico militare: inizia così uno scorcio estremamente tormentato della nostra storia. Iniziò la penosa Via Crucis e processione dei “deportati” nei campi di concentramento. Anche a Valli, si diffuse in un baleno la notizia che era stato firmato l’Armistizio. La gente scese dai monti e dalle contrade: la guerra è finita! E’ finita!

Si riempiono la piccola piazza e la grande chiesa: gioia, canti, cande­le, suono festoso di campane fino a tarda sera. Era il popolo che, pazzo di gioia, voleva il suono prolungato. Ma per guastare la festa e la gioia bastò che, verso sera, una mostruo­sa macchina da guerra – un carro armato tedesco – arrivasse in piazza: solo un giro attorno alla piazza e poi via verso Schio. Fu un fuggi, fuggi generale!

Ci illudemmo noi giovani (“nati in gabbia per il fascismo”) di avere raggiunto la libertà: invece era l’inizio di una terribile catastrofe nazio­nale.

A Valli, i carabinieri, fedeli al re, dopo l’Armistizio fuggirono tutti tra­vestiti. Così la loro caserma rimase vuota. Servì di stanza, solo per la truppa, nelle varie alternanze nazifasciste di presidio. I comandanti dei vari presidi succedutisi si sistemarono invece da Aste, a Villa Maria ecc.”

 

GLI EBREI SLAVI A DOMICILIO COATTO A VALLI

“Quando, in bicicletta, prete novello, arrivai a Valli il 26 Luglio 1942, subito in canonica mi informarono che a Valli c’erano (dal 1941) come “internati” quaranta ebrei slavi (Zagabria). Seppi che erano persone per bene, rispettate, amate e anche aiutate dalla gente. Molti ebrei erano alloggiati all’albergo “Belvedere”: gestiva l’albergo la signora Assunta. Tra loro c’era anche una signora vedova: maestra Olga Schlesinger. Aveva due figli: Bruno (14 anni) e Felice (12 anni). I due ragazzi a Valli non stavano oziosi: erano intraprendenti. Cercarono subito lavoro: anche per arrotondare. Bruno riparava biciclette all’officina di Attilio Sberze, Felice faceva il commesso garzone nella farmacia del dott. Guido Tessari.” All’occasione ebbero assistenza medica dal dr. Pontivi. La vita di questi signori slavi adulti sembrava tranquilla: avevano anche un sussidio”.

 

Don Michele

Don Michele

28 giugno 1942

28 giugno 1942

Don Michele e sua sorella suor Giampaola Carlotto

Don Michele e sua sorella suor Giampaola Carlotto

Graziella Carlotto e don Michele

Graziella Carlotto e don Michele

San Pietro 1942

San Pietro 1942

Il Tezzon

Il Tezzon

Il Tezzon

Il Tezzon

Giugno 1992

Giugno 1992

Giugno 1992

Giugno 1992

Don Michele con Bruno e Felix

Don Michele con Bruno e Felix

Felice e don Michele 20 giugno 1997

Felice e don Michele 20 giugno 1997

20 giugno 1997

20 giugno 1997

Discorso di Felice Spiegel

Discorso di Felice Spiegel

La firma di don Michele

La firma di don Michele

Yad Vashem

Yad Vashem

Don Michele 28 giugno 1942 Don Michele e sua sorella suor Giampaola Carlotto Graziella Carlotto e don Michele San Pietro 1942 Il Tezzon Il Tezzon Giugno 1992 Giugno 1992 Don Michele con Bruno e Felix Felice e don Michele 20 giugno 1997 20 giugno 1997 Discorso di Felice Spiegel La firma di don Michele Yad Vashem

 

FUGA PROGRAMMATA DEGLI EBREI

“Purtroppo la possibilità di un eventuale trasferimento degli ebrei, ospiti a Valli, in un temuto campo di concentramento era sempre nell’a­ria. Vivevano sempre sotto questa cappa di paura. Dovevano ogni 24 ore firmare la loro presenza.

Per questo motivo fui presente ad un incontro segreto tra alcuni di questi ebrei e altre persone di Valli: si presero delle decisioni sul modo di salvare queste 40 persone. Quando il temuto ordine arrivò (dicembre 1943) fu così più facile risolvere il problema di far sparire segretamente queste persone e trovare per ciascuna di esse una soluzione personale. Fu così possibile avere per ognuno una sistemazione entro 48 ore: così era programmato per la denuncia alle autorità (in Municipio).”

La signora Olga fu convocata, assieme agli altri jugoslavi, dal Brigadiere (o Maresciallo) dei carabinieri che comandava la stazione di Valli del Pasubio. Egli fece vedere un ordine di arresto per tutti gli ebrei, informandoli però che, per quanto stava in lui, avrebbe considerato di aver ricevuto quell’ordine il giorno seguente.

Olga Spiegel non se lo fece ripetere due volte e con l’aiuto dei coniugi Zucchi-Zuliani, che aveva conosciuti in precedenza, trovò rifugio nella contrada dei Corobolli nel mulino sul Gogna sopra Poleo nella località della “Bojaoro”.

Quando questa denuncia fu notificata ufficialmente, essi erano già al sicuro! Li abbiamo aiutati in tutti i modi a scappare: chi nelle contrade alte di Valli, chi in altre città d’Italia e, la maggior pare, in Svizzera. Un prete (credo svizzero) li guidava per i sentieri di montagna, fino al confine svizzero. Avevano tutti carte d’identità false: erano procurate in maggioranza dall’arciprete di Schio, monsignor Tagliaferro. Si salvarono tutti, eccetto uno che, durante un rastrellamento, terro­rizzato, saltò da una finestra: fu catturato e ucciso a Terragnolo. Si chia­mava Leo. (Si tratta di STEINLAUF Leon, croato, commerciante di tessili, che entrò nelle fila partigiane dopo l’8 settembre 1943 e fu ucciso nell’aprile 1945 da fascisti, ndr). La mamma vedova (Olga, ndr) fu nascosta in una vecchia casa nella zona di Poleo e poi ospitata in un istituto di suore a Schio. Più tardi, di notte, fu arrestata e portata in prigione.”

Entrò a questo punto in azione l’operato della sig.ra Edi Tomiello Maraschin e di suo padre i quali, avvertiti di quanto stava accadendo, dal loro cugino Domenico Perazzo, si prodigarono nel portare ai Corobolli dei viveri per i rifugiati. Fondi per aiuti vennero raccolti da allora da Remo Grendene e da Domenico Baron interessando industrie locali e privati.

Al delinearsi della primavera del 1944 iniziarono i rastrellamenti dei militi della RSI. Avendone avuto sentore, per evitare la cattura, i rifugiati, aiutati dalla sig.ra Edi, trovarono un nascondiglio a Poleo e là si trasferirono tempestivamente.  Solo la signora Olga, avendo dimenticato ai Corobolli dei valori, che vi aveva nascosti, ritornò sui suoi passi per riprenderseli cadendo nel rastrellamento che si stava svolgendo nella zona. Catturata dagli ucraini, che erano stati  incorporati nelle bande nazi-fasciste, venne imprigionata a Schio, iniziando una detenzione di cinque settimane. Fu necessario allora provvedere ai figli di Olga che don Michele Carlotto, avendo l’appoggio di don Giuseppe Molon di Vicenza, ottenne fossero accolti presso l’Istituto San Gaetano di Vicenza.

 

FUGA SEGRETA E PRECIPITOSA DA VALLI

I due ragazzi ebrei, Bruno e Felice, furono portati in casa dei miei fra­telli al Tezzon di Castelgomberto: Noi eravamo orfani: mia sorella Carmela faceva la mamma. Accolse con affetto i due ragazzi. Questi diventarono subito amici di mio fratello minore, Mario. Amici anche di nostra cugina Luisa, sfollata a casa nostra. Si tengono ancora oggi in cor­rispondenza, dopo più di cinquant’anni! Anch’io mi ero affezionato ai due ragazzi perché li avevo preparati alla prima Comunione e alla Cresima.

I due ragazzi, come pure la mamma, erano già stati battezzati a Zagabria prima di arrivare a Valli.

Il nome era “clandestino”: così era scritto sulle loro carte d’identità false. Alla gente della contrada erano stati sempre presentati come “ orfa­ni, sfollati da Fiume”. In realtà si chiamavano Spiegel: Bruno era Mladen (il maggiore), Felice era Srecko (il minore). Il cognome assunto in Italia era Bertoldi.

Ecco come avvenne la fuga. Con due biciclette da uomo: due selle e due “paletti”. Io portavo Felice e Bruno portava un ragazzo tredicenne, Gino Borin. Bruno e Felice dovevano aspettarci fuori del paese: nessuno doveva vedere ed essere eventualmente testimone incomodo della fuga. Scappammo così, in segreto, come gente colpevole di tramare qualche cosa di proibito! E tornammo, sempre in bicicletta, noi due soli e pen­sierosi: io e Gino Borin. Però eravamo anche contenti che Bruno e Felice fossero salvi e al sicuro: la nostra casa e la fattoria erano a loro disposi­zione! So che passarono quel periodo felici e …in libertà limitata. Nella grande casa colonica dei miei fratelli (pur essendo zeppa di nostri parenti sfollati da Vicenza a causa dei bombardamenti) fu possibile trova­re altri due posticini anche per i fratelli Bruno e Felice. Ricordo che anche il granaio della fattoria ospitava quattro famiglie di parenti: una famiglia per angolo! …e mensa comune, con le grandi pentole!

I due ragazzi slavi ebrei erano contenti nella loro per­manenza al Tezzon. Si prestavano alle occupazioni quotidiane della vita di campagna. Mladen – Bruno era orgoglioso di guidare il cavallo nel lavo­ro dei campi! Ma c’era un dolore e un grande desiderio: poter rivedere la mamma che era, in incognito, ancora ospite della famiglia vicino al vecchio mulino a Poleo di Schio. Decidiamo di andare, anche se era rischioso farsi vedere in giro assieme. In bicicletta partiamo insieme dal Tezzon. Prima di arrivare a Schio, ci distanziamo di duecento-trecento metri: io e loro avevamo parecchie conoscenze a Schio ed era inutile rischiare di farci vedere assieme. Do loro un segnale: “Quando abbasserò il braccio verso il fondo di una valletta vuol dire che lì è nascosta vostra madre. C’è anche un vecchio mulino”. Continuo da solo la strada e, dopo un tratto, mi fermo e mi siedo su un paracarro, disposto ad aspet­tare almeno un paio di ore.

Non erano ancora passati dieci minuti che Bruno, ansante, mi rag­giunge. Esclama: “Abbiamo combinato tutto! È grossa!” “Come?” “Nostra mamma ha sempre detto alla famiglia che l’ospitava di avere due figli in collegio a Firenze: lei è appunto uno dei professori del collegio: mi raccomando: parli bene l’italiano!”

Stetti alle loro indicazioni, parlando sì italiano, ma certo senza inflessione toscana! E così le cose andarono a lieto fine e i due ragazzi ebrei poterono riabbracciare la loro mamma.

C’era a Valli, nel 1944-1945, una botteguccia povera e disadorna: era gestita da una vecchietta, la “Biia”. Mi servivo da lei più volte di “sgal­mare” (suole di legno) e flanelle da inverno, sempre evitando discorsi compromettenti. Ritorno per un nuovo, solito acquisto. La “Biia” mi serve e poi, preparandomi il pacco, mi dice: “Le faccio un buon prezzo, sa, perché so dove porta questa merce”.

Mi sento un brivido lungo la schiena: faccio finta di non aver capito, pago senza parole ed esco. Per strada mi ripeto indispettito e preoccu­pato: “Ma se io non parlo mai con nessuno di queste cose! Chi può aver­lo detto? Allora lo sanno?!”. Pensai anche: “VuoI dire che anche loro sono d’accordo”. E mi tranquillizzai.

“Se si fossero fatti vivi gli sgherri, avrebbe dovuto rispondere di averli accettati come orfani presentati da me. Io avrei dovuto fare il finto tonto e dire che avevo parlato con il Vescovo che mi aveva autorizzato ad assisterli e che i due mi erano piovuti addosso per merito di una persona che non conoscevo”.

Purtroppo la cosa, ben iniziata per i fratelli Spiegel, non poté conti­nuare: anche a casa nostra, ad un certo momento, i ragazzi non erano più al sicuro. Nel vicinato cominciarono sospetti sulla identità reale di Bruno e Felice. Fummo costretti a provvedere in altro modo. Parlai con il vescovo Carlo Zinato e, con il suo consenso, i due ragazzi furono nascosti e ospitati all’istituto San Gaetano a Vicenza. Il fondatore, Don Ottorino Zanon, si curò bene di loro per tutta la durata della guerra.”

Prolungandosi la detenzione della sig.ra Olga, venne concertato fra Domenico Baron e Remo Grendene, che ormai collaboravano in coppia, come poter liberarla. Fu deciso che il sig. Grendene chiedesse l’intercessione all’avv. Ruggero Rizzoli. La cosa riuscì poiché, senza approfondire, l’avvocato Rizzoli rilasciò una lettera con la quale il Grendene potè ottenere la rimessa in libertà di Olga. La signora venne accolta in Casa Panciera, presso le Suore Giuseppine, con la raccomandazione di non uscirvi per nessun motivo.

Qualche tempo dopo, le cose si misero male per Olga quando, nel febbraio del 1945, volle uscire da Casa Panciera per delle compere. Arrestata, venne nuovamente imprigionata, nell’impossibilità questa volta di venire liberata per via dell’inasprimento della situazione politico-militare.

Per colpa di qual­che spia, la mamma venne arrestata di notte e le trovarono addosso le foto dei due figli. Fu imprigionata, in attesa di esse­re spedita in Germania. Era logico che avrebbero arrestato anche me. Corsi dal Vescovo e tenemmo il secondo consulto a tre, con don Ottorino. Zinato fu deciso come la prima volta. Disse a don Ottorino di rispondere, in caso di arresto, che i due ragazzi glieli avevo passati io e che il Vescovo sapeva tutto. Disse a me: se vengono per fare i conti con te, beh, qualcosa cercheremo di rispondere. Ma prima di tutto confidia­mo nell’aiuto del Padreterno. Tornai a Valli convinto che lì ‘angeli custodi neri’ sarebbero venuti a prelevarmi. Ero rassegnato: come minimo sarei finito in campo di concentramento. Ma c’era anche la paura di finire fucilato. Passai settimane e settimane d’in­ferno, per la paura. Una notte si fermò davanti alla canonica una mac­china di soldati tedeschi. Pensai che era arrivata la mia ora. Feci, con convinzione, 1’esercizio della buona morte che mi avevano insegnato in Seminario. No, i tedeschi avevano solo sbagliato strada e se ne andarono senza che me ne accorgessi. Poi arrivò la Liberazione e l’incubo finì.”

Solo l’avanzamento degli alleati e la liberazione, che a Schio avviene il 29 aprile, tranquillizzò don Michele e salvò Olga. La guerra terminò ed Olga fu finalmente rimessa in libertà, ottenne a Schio una regolare carta d’identità e andò a riprendere i suoi due figli a Vicenza.

Anche dopo la liberazione i due ragazzi rimasero ancora in Italia, fino al novembre 1945 perché la mamma, malaticcia, non era ancora in grado di fare il viaggio di ritorno alla loro Zagabria.”

 

UN VOLUME PREZIOSO DELLA MIA BIBLIOTECA

Si presenta in canonica a Valli un Signore distinto. Mi dice: “Sono Ravenna, vengo da parte di Monsignor Stocchiero di Vicenza”.

Mi presenta un biglietto (anonimo!) su cui c’era scritto solo: “Ti invio un volume prezioso della mia biblioteca: abbine cura”. Questo volume era…un ebreo-italiano. Anche lui spinto si fino ai monti di Valli pensan­do di trovare un luogo sicuro!…ed era invece arrivato proprio in bocca al lupo! di lui non seppi più nulla!” Il signor Ravenna fu in un primo tempo accolto in casa del negoziante Grendene (morto circa nel 1960) e poi all’Ospedale Baratto dove si comportò stranamente, forse non rendendosi conto del pericolo che correva lui stesso e chi lo ospitava.

 

UNA PRIMA VISITA NOTTURNA, INASPETTATA E COMMOVENTE: INDIMENTICABILE.

A Fusine di Posina: era un inverno molto freddo, neve alta, sera già avanzata, buio pesto e… sento picchiare alla porta. Apro e mi trovo davanti Bruno, l’ex ragazzo ebreo di Valli: già grande, già laureando. Passammo lunghe ore a conversare. “Come hai fatto a pescarmi qui?”. E mi racconta: “Per completare la mia tesi di laurea ho ottenuto per la prima volta un passaporto per l’e­stero. Vi rimasi due mesi. Per il ritorno a Zagabria chiesi un lasciapassa­re per l’Italia. A Roma ho una conoscenza ed ho ottenuto un visto di per­manenza in Italia di altre quarantotto ore. Sono stato a cercarla a Valli ed ora… eccomi qui!”. Poche ore di sonno e Bruno, al mattino presto, anco­ra buio, parte soddisfatto per rientrare in patria.

 

PERENNE E SINCERA RICONOSCENZA DEI DUE EX RAGAZZI EBREI

Sono passati oltre cinquant’anni e Bruno (Mladen) e Felice (Srecko) si sono mostrati sempre riconoscenti. Cresciuti, laureati, in pensione, sono venuti più volte a farmi visita (a Fusine di Posina, all’ospedale di Bassano, a Vicenza a San Pio X). Ogni anno immancabili i loro auguri a Natale e Pasqua! Quando nel 1992, a Castelgomberto, celebrai il cinquantesimo di ordinazione sacer­dotale, erano lì tutti e due presenti. Nel pomeriggio passammo alcune ore felici nella vecchia casa di campagna al Tezzon.

Tornare in quei luoghi era per loro di gioia: curiosi, visitarono tutto per vedere se era tutto ancora come nel 1943. Sono stati soprattutto i due fratelli ebrei (ancora nel 1995) ad interess­arsi perché lo stato d’Israele mi dedicasse una medaglia di onorificenza. Ho già ricevuto tanti segni di riconoscenza qui in terra: spero non mi manchi il premio di Dio!

Il 22 agosto 1996 arriva, da Gerusalemme, la comunicazione del conferimento dell’onorificenza. Sia all’Ambasciata d’Israele a Roma sia, il  20 giugno 1997, presso la Prefettura di Vicenza, don Michele Carlotto partecipa alle cerimonie previste per l’attribuzione del titolo di “Giusto fra le Nazioni”.

 

ref: DON CARLOTTO MICHELE – ITALY

Jerusalem, 22 August 1996

We are pleased to announce that the above person was awarded the tide of “Righteous Among the Nations”, for help rendered to Jewish per­sons during the period of the Holocaust.

A medial and certificate of honor will be mailed to the Israeli embas­sy nearest the honoree’s domicile, which will organize a ceremony in the above’s honor. The above person is also entided to have his name added on the Righteous Honor Wall at Yad vashem, during bis visit to Israel, or of a near relative.

Copies of this letter are being mailed to the honoree, to persons who have submitted testimonies, and other interested parties.

Dr. Mordecai Paldiel

Director, Dept. for the Righteous

 

Traduzione della lettera YAD VASHEM, del 22 agosto 1996

Rif: DON CARLOTTO MICHELE  – ITALIA

Abbiamo il piacere di comunicare che alla persona suddetta è stato conferito il titolo di “Giusto fra le Nazioni”, per l’aiuto da essa dato a persone Ebree durante il periodo dell’Olocausto.

Una medaglia e un certificato d’onore saranno inviati all’ambasciata d’Israele più vicina al domicilio della persona così onorata, e detta amba­sciata organizzerà una cerimonia in onore della persona suddetta. Questa persona ha pure il diritto di avere il proprio nome iscritto sul Muro dei Giusti a Yad Vashem e potrà chiedere questo in occasione di una visita in Israele da parte sua o di un parente stretto.

Copie della presente lettera sono spedite alla persona così onorata, alle persone che hanno testimoniato in suo favore e ad altri interessati.

Dott. Mordechai Paldiel

Direttore Div. dei Giusti

 

 

Fino all’anno scolastico 2004-2005, don Michele, instancabile, ha continuato ad incontrare centinaia di ragazzi per raccontare, seppur con il pudore di chi continuava a ripetere di non essere stato un eroe, le sue memorie che, intrecciandosi con le storie di chi è sopravvissuto e di coloro che sono morti, hanno contribuito a costruire un mondo basato sul  dialogo, sull’incontro e sulla dimostrazione che, davanti alla discriminazione, alla violenza, all’istinto di conservazione che spinge a non immischiarsi, a “restare chiusi in casa”, innanzi allo scempio della negazione della dignità dell’uomo e alla “catastrofe”, ha saputo scegliere la via difficile e rischiosa di chi difende i diritti delle donne e degli uomini, senza nessuna eccezione.

Ci piace ricordarlo così, tra i ragazzi rapiti dalle sue parole e dai suoi silenzi, con la sua ironia sempre pronta a spezzare la tensione del ricordo, con il suo dolce sorriso e gli occhi accesi di vita.

 

 

Clicca qui per vedere le lettere inviate dagli Spiegel a don Michele Carlotto dopo la guerra.

 

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