Elia Somenzi

Elia Somenzi

Foto tratta dalla Gazzetta d'Alba

 

Dal Corriere della Sera del 27 gennaio 2006

«Io, sedicenne, nascondevo gli ebrei nel camion per salvarli»

Ha salvato tante vite. Trenta, quaranta, cinquanta: il numero preciso nemmeno lo sa. Eppure Elia Somenzi ricorda con pudore. Si lascia strappare a fatica i dettagli di una storia straordinaria per tutti. Normale solo per lui.
«Oggi ho 77 anni. Per raccontare devo tornare al ’44, quando di anni ne avevo 16 e lavoravo con mio padre», ricorda. Papà Ermanno Somenzi, di Treviglio, era un antifascista convinto. Di mestiere faceva l’ispettore delle filande della famiglia Bonazzi di Arzignano (Vicenza). Tra i suoi compiti c’era anche quello di far arrivare puntuale la materia prima: camion pieni di fiocchi di seta pronti per la filatura che partivano dalla bergamasca.
«Dopo l’8 settembre ’43 in quei camion cominciammo a nascondere degli ebrei. Soprattutto bambini, accovacciati tra i sacchi colmi di fiocchi di seta. Qualche volta intere famiglie».
I camion puntavano dritto alla frontiera svizzera. Con alcune tappe collaudate. E l’aiuto di «basisti» coraggiosi. Tra questi anche don Eugenio Bussa, prete milanese del quartiere Isola che i Somenzi avevano conosciuto durante un periodo vissuto a Milano.
«Gli ebrei venivano nascosti da una suora nella casa di riposo Trotti-Brambilla di Treviglio. Da lì salivano in camion e li portavamo a Milano, dove alloggiavano per qualche giorno presso famiglie dell’Isola, segnalate da don Bussa. Al momento propizio, da Milano partivamo per Cadegliano, in provincia di Varese».
A Cadegliano i viaggiatori in incognito venivano portati nella cascina di un ex dipendente della filanda. «A quel punto dovevo andare avanti da solo. Al confine mancavano solo due chilometri. A piedi facevo da guida attraverso vecchi sentieri fino a ponte Tresa e Cremenaga».
Ma come si faceva a passare il confine? «Il confine era segnato da un reticolato di oltre quattro metri. Appena lo si toccava, c’erano campanelli che suonavano. Potevo contare sulla complicità di alcuni contrabbandieri che, al momento giusto, scuotevano la rete in un punto concordato in modo da distrarre l’attenzione dei soldati. In questo modo era più facile passare sotto la rete in un sottopasso nascosto da un cespuglio».
Elia Somenzi non ha più incontrato nessuno di quei bambini che sessant’anni fa ha accompagnato alla salvezza. «Non ho raccontato tanto in giro questa storia, dopotutto non mi sembra ci sia nulla di speciale», taglia corto. Ma paura qualche volta ne avrà pur avuta… «Non una volta ma tante — confessa —. Per fortuna nei nostri viaggi non siamo mai stati fermati dai fascisti. Ma a un certo punto fu messa una taglia su chi aiutava gli ebrei a scappare. Io e mio padre dovemmo sparire da Treviglio per un po’».
Queste per Somenzi sono ore importanti. Da un momento all’altro arriverà Chiara, la sua prima nipotina. «Sì, certo, anche a lei racconterò questa vecchia storia. Con un pizzico di tristezza, però. Perché tanti sforzi per un mondo migliore sono valsi a poco. Oggi le ingiustizie prevalgono. Esattamente come allora».

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