Ervy Perrone e Angiolina Costaganna

Ervy Perrone e Angiolina Costaganna

 

Tratto da Quaderni della Resistenza – Schio, ottobre 1977 n. 1,

Edizioni “Gruppo Cinque”, Grafiche BM di Bruno Marcolin, San Vito di Leguzzano 1977, pp. 43-48.

 

Sign.ra ANGIOLINA COSTAGANNA ved. Ing. ERVY PERRONE intervistata da E. Trivellato a Posina, contrada Ganna, il 24 agosto 1977.

Mio marito era piemontese, io invece sono nativa di Posina. Fino al gennaio 1943 abitavamo a Torino, dove l’Ing. Perrone aveva avviato con buoni risultati una piccola fabbrica per accessori di gomma. Ma in conseguenza dei pesanti bombarda- menti sulla città, in febbraio si decise di trasferirci con la famiglia (Lido, Silda e Telma) a Posina nella nostra casa rustica in contrada Ganna. Nei giorni dell’8 settembre 1943 mio marito ed io eravamo tornati a Torino e ricordo ancora il viaggio di ritorno a Posina, perché i Tedeschi fecero svuotare e controllare i treni, men- tre lunghe tradotte di militari italiani partivano per la Germania. Appena in Posina vennero da noi due persone di Poleo (Schio), forse mandati da qualcuno che conosceva mio marito; in seguito ne giunsero altri sei a discutere sulla situazione del momento. È certo che questi ospiti, di cui non saprei il nome, intuirono che l’Ing. Perrone era molto sensibile al disagio in cui si trovavano i giovani e i mili- tari sbandati.

I DUE INGLESI VICTOR E FRED
Sempre in quel settembre, poco dopo, vidi arrivare in casa due Inglesi, affamati, che erano sfuggiti ai Tedeschi saltando giù da un treno a Verona mentre stavano deportandoli in Germania. Restarono da noi fino alla fine della guerra collaborando alle attività della Missione « Freccia » che venne più tardi, poco dopo il rastrellamento di Posina. Verso il novembre del 1943 il brigadiere dei Carabinieri di Posina ricevette una lettera anonima nella quale si scriveva che in casa Perrone si tenevano riunioni di Inglesi, Ebrei e « ribelli »; il Brigadiere, appena vide mio marito in paese, gli fece cenno e di nascosto gli mostrò la lettera. «È vero? » domandò «Sì» rispose mio marito. «Ma lei vuol bene alla sua famiglia?». «Mi sono capitati in casa disperati e affamati». «Io le consiglio di sistemarli in qualche altro posto » disse il Brigadiere. «Vedrò come posso fare». «Pensi che cosa le succederà se vengono a saperlo i fascisti!» concluse il Brigadiere. Mio marito tornò fuori di sé per la rabbia a causa della lettera anonima, però fummo d’accordo di trovare una soluzione. Fred venne mandato sopra le Lambre in una casetta chiamata «La Betta» e Victor fu sistemato nel bosco sopra casa «da Spalla » in un riparo di fortuna, portandogli da mangiare durante la notte, in quanto di giorno sulla strada sottostante transitavano spesso pattuglie di Tedeschi.
Si era già verso l’inverno, il freddo si fece sentire e fu anche un autunno piovoso. Un giorno mio figlio Lido trovò i due Inglesi riuniti a confabulare e poco dopo mi piombarono in casa. Victor ripeteva: «Io non andare più nei boschi », sembrava impazzito. Con l’inverno che stava avanzando non si ebbe il coraggio di ributtarli fuori all’aperto e quindi si studiò un nascondiglio nel sottotetto. Tra l’altro Victor soffriva di mancata ritenzione d’urina e ciò costituì un problema per tutti. Nel vicino Comune di Laghi si trovava nascosto un Neozelandese grosso oltre il quintale, sfuggito ai Tedeschi; un giorno il capofamiglia che lo teneva nascosto avvicinò mio marito per dirgli che l’«ospite» ce l’aveva anche lui, ma che si sentiva tanto solo perché non aveva nessuno con cui parlare. Cosicché il sabato, la domenica e il lunedì veniva da noi a chiacchierare con Fred e Victor anche il Neozelandese. Dopo la guerra un suo fratello, che gli assomigliava, venne a cercarlo ma lui era già partito. Quando la guerra partigiana diventò consistente e organizzata Fred e Victor aiutarono la Missione « Freccia » e Victor in particolare si trasferiva spesso da una località all’altra. Subito dopo la Liberazione l’Ing. Perrone fu ricoverato all’Ospedale di Schio per diabete e Victor si diede tanto da fare che ci accompagnò il Governatore, il quale con urgenza provvide a far venire l’insulina da Vicenza.

SAUL RAPPAPORT E FRIEDA
Nell’autunno del 1943, mentre avevamo già Fred e Victor in casa, una famiglia della zona ospitava due coppie di ebrei, espulsi dall’Austria a causa delle persecuzioni razziali, passati in Jugoslavia e poi venuti in Italia, dove furono mandati con altri al soggiorno obbligato in Posina. Saul Rappaport, con la moglie Frida, si faceva chiamare «Mario», era oriundo della Romania, aveva avuto a Vienna un commercio internazionale di telerie e conosceva bene l’inglese. Ambedue erano sulla cinquantina. Quando seppe dei due Inglesi Saul ci capitò in casa per scambiare quattro parole con loro e così conobbe mio marito. Intanto la famiglia di Posina che ospitava questi ebrei non se la sentì più di correre un grosso rischio e li invitò a trovarsi un’altra sistemazione; allora ci supplicarono di aiutarli, piangendo e commiserandosi, perché sapevano quale fine avrebbero fatto se fossero caduti in mano ai Tedeschi. Ne fummo commossi, accogliemmo anche loro e restarono fino alla Liberazione. In casa al Natale del 1943 eravamo già in undici persone, oltre ai partigiani che con l’oscurità venivano spesso a cena con noi. Appena finita la guerra Rappaport si fece venire dei pacchi dagli Stati Uniti ed avviò subito un piccolo commercio di biancheria intima, restando in Posina fino al 1946. Poi tornò a Vienna per riprendere il suo commercio di telerie. In precedenza, prima di abbandonare Vienna, egli aveva spedito in Belgio un vagone ferroviario con i suoi averi e ricordo che in Posina consegnò a mio marito tutti i documenti, compresa la preziosa ricevuta di spedizione. Infatti, dopo la Liberazione, scrisse in Belgio e gli fu risposto che il vagone era arrivato ma il contenuto era sparito, probabilmente ad opera dei Tedeschi, comunque spedisse un elenco della merce inviata. Saul lo compilò subito e dal Belgio gli furono inviate parecchie migliaia di dollari, che utilizzò per riprendere il suo commercio. Rappaport ritenne di sdebitarsi verso chi lo aveva ospitato per tanti mesi, a proprio rischio, facendoci pervenire cinquantamila lire.

 

I DUE EBREI VIENNESI

Oltre a Saul e Frida, furono con noi anche due altri ebrei nativi proprio di Vienna, marito e moglie, sulla cinquantina. Al momento non ricordo i nomi, anche perché se ne stavano sempre in disparte, impauriti, molto riservati e non sempre in accordo con Saul e Frida. Una decina d’anni dopo la fine della guerra una loro figlia ci scrisse per avere una dichiarazione – ai fini della pensione che suo padre si trovava in Posina come perseguitato dai nazisti.

 

IL MAGGIORE WILKINSON («FRECCIA»)
Il Maggiore inglese Wilkinson giunse da noi nella prima quindicina di settembre del 1944, dopo il rastrellamento di Posina. Alto (mt. 1,80-1,82), ben formato, sui trentacinque anni, biondissimo, con occhi grigio-azzurri ma non freddi, anzi dolcissimi. Arrivò con un piccolo zaino sulle spalle e nei mesi che restò da noi girava sempre con la sua divisa militare, giubbetto, scarpe militari a stivaletto, una piccola pistola nella tasca dei pantaloni. Parlava tranquillo e non ricordo di averlo mai sentito alzare la voce nemmeno quando « Sergio » (Attilio Andreetto) piombò qui furente perché da tre-quattro notti stavano aspettando inutilmente i lanci. Il Maggiore rispose che, per parte sua, aveva mandato i radiomessaggi più volte e quindi doveva esserci qualche intralcio da parte alleata.

Il Maggiore Wilkinson comandava tutta la Missione « Freccia », così chiamata dal suo nome di battaglia, ed era coadiuvato da « Dardo » e « Colombo » e da un Caporal maggiore. Oltre a mantenere i collegamenti con il Comando alleato al fronte a mezzo delle due ricetrasmittenti, sia per l’organizzazione dei lanci che per informazioni in codice, il Maggiore si teneva sempre in contatto con i Comandanti partigiani di tutta la zona (Valle dell’Agno, Val Leogra, Val Posina, Val d’Astico e i monti soprastanti, Altopiano d’Asiago e pianura). A volte i Comandanti venivano qui, altre volte si spostava il Maggiore attraverso i sentieri. Ho l’impressione che lui si sentisse tranquillo, in questi spostamenti, perché era un Maggiore inglese in divisa e forse pensava che al massimo lo avrebbero fatto prigioniero. Non scendeva mai in paese di Posina e cercava di non farsi vedere dagli abitanti del luogo, salvo la sera che lo vidi partire per l’ultima volta con una vecchia bicicletta. Durante la sua permanenza qui ricevette una notte, con un lancio, una lettera della moglie (sposato senza figli), la quale gli comunicava che non voleva più saperne di lui e che lo piantava. Il Maggiore non fumava né pipa né sigarette, ma gli piaceva bere e buttava giù la grappa come acqua, anche se qualche volta ne ave- vamo di scadente. Mi raccontava che, prima della guerra, aveva viaggiato molto ma che gli era piaciuto un posto in particolare, il nome non lo ricordo (d), dove era sempre primavera tutto il tempo dell’anno; gli abitanti del luogo gli erano stati riconoscenti per quello che aveva fatto per loro e gli avevano regalato una villetta, dove pensava di trascorrere la sua vita quando avrebbe cessato il servizio. Egli aveva anche una sorella, che dopo la guerra venne a cercarmi ma non la incontrai perché non gli venne riferito dove mi trovavo. Un giorno del febbraio 1945 venne giù da noi un partigiano-staffetta per riferire al Maggiore che vi doveva essere una riunione nel suo casolare sopra Laghi ma, alla partenza vi fu disaccordo fra la staffetta, che risalì per i sentieri alti malgrado la neve, ed il Maggiore che volle partire con una vecchia bicicletta, tutta scassata; lo accompagnai fin sulla strada e fu l’ultima volta che lo vidi. A Fusine la bicicletta non andava più, egli batté alla porta di una famiglia, la lasciò lì e proseguì a piedi. Seppi che il Maggiore restò qualche giorno sull’Altopiano di Tonezza. Una notte giunsero a Castana alcuni rastrellatori della polizia trentina che, invece di girare per Posina, come si temeva, si spostarono verso la zona di Laghi. Mi è stato riferito che anche sull’Altopiano di Tonezza erano in circolazione altri rastrellatori, per cui ritorno in contrada Ganna – incappò nei Tedeschi, fu ucciso e lasciato sul posto nel suo spostamento come un cane nella zona delle malghe sul Campiello. Lo ritrovarono alcune perso- ne del luogo. Dal momento che il Maggiore, per una sua scelta personale, preferiva viaggiare da solo non poté essere appoggiato dai Partigiani. Avuto conferma della sua morte, mio marito espresse il desiderio che venisse sepolto nel cimitero di Posina.

“DARDO” e “COLOMBO”
Erano due ufficiali inglesi della missione « Freccia », i quali aiutavano il Maggiore nella sua attività. Dopo la morte di « Freccia », il capitano « Dardo » e il capitano « Colombo » diressero la Missione inglese fino alla fine della guerra. In seguito vennero in Posina a farci visita (e) e seppi che « Dardo » era in missione in Rhodesia.

I DUE OPERATORI-RADIO
La Missione inglese disponeva anche di due operatori-radio (f) che erano sempre incollati alle trasmittenti; mi facevano addirittura compassione. Ricordo che un operatore si arrabbiava spesso perché il suo ascoltatore al Comando Alleato era quasi sempre disattento e gli faceva ripetere i messaggi. Da una stanzetta sul retro al primo piano, dove c’erano le trasmittenti, l’antenna usciva dalla finestra e il filo correva poi su di un noce dietro casa. I Tedeschi fortunatamente non se ne accorsero ma in autunno, al cadere delle foglie, questo filo costituiva un grosso pericolo. Gli Alleati avevano mandato con un lancio anche venti coppie di colombi inanellati, ma poco prima di un rastrellamento, un milanese (bersagliere) pratico di colombaie tolse gli anelli, purtroppo dimenticandone uno; un Ufficiale tedesco disse di essere informato che i colombi servivano per le comunicazioni e li fece uccidere con tante scariche di fucile mitragliatore che più tardi venne raccolto mezzo secchio di bossoli. Per fortuna i Tedeschi erano ormai sul punto di andarsene e non riuscirono a ucciderli tutti, ne restarono tre coppie fra le quali trovammo uno che aveva an- cora l’anello. Durante una perquisizione i Tedeschi requisirono la macchina da scrivere, la radio di casa e il grammofono.
Per poter nascondere le molte persone che avevamo in casa mio marito aveva provveduto a far murare l’ingresso di una vecchia stanza a volta, seminterrata, che aveva solo una finestrella di arieggio sul retro della casa. Anche il vettovagliamento di tanta gente costituì un grosso problema per la difficoltà di reperire i generi alimentari.

«ROSSI» E IL SUO CAPORAL MAGGIORE
Mentre il Maggiore Wilkinson era sempre al comando della Missione inglese, in un tardo pomeriggio di febbraio del 1945 ci arrivò in casa un giovane ufficiale inglese con il nome di battaglia « Rossi » accompagnato da un Caporal maggiore. Mi è stato poi detto che questo « Rossi » era stato insignito di una decorazione da sua Maestà britannica per aver partecipato allo sbarco nelle coste della Nor- mandia. I due venivano dall’Altopiano di Tonezza e, dopo un colloquio con gli Inglesi di casa, si misero a tavola con appetito, perché era stato concordato che alle 21 precise un gruppo di partigiani sarebbe venuto a prelevarli per condurli sul Pasubio, nella cui zona avrebbero dovuto dirigere i segnali luminosi per gli aviolanci. I lanci di montagna erano diretti dal Maggiore Wilkinson. All’ora convenuta non arrivò nessuno e i due Inglesi cominciarono a innervosirsi e a camminare su e giù per la stanza come leoni in gabbia. La pattuglia di partigiani capitò verso l’una di notte e finalmente si misero in cammino, ma quando giunsero al Griso, l’ultima contrada della Val Posina prima del Passo della Borcola, incontrarono una quarantina di Tedeschi che stavano scendendo verso Posina: vi fu una sparatoria e i partigiani lanciarono anche due bombe a mano. Tornati di corsa in contrada Ganna, li sentii battere furiosamente alla porta e non feci quasi a tempo ad aprire che mi scaraventarono dentro fucili, zaini e una pesante cassetta di munizioni che trascinai a fatica nel letamaio, nascondendo il resto in buche sotto la neve; due di loro erano feriti di striscio, uno alla testa e l’altro a un braccio. In seguito ripartirono in sette, oltre a « Rossi » e il suo aiutante, diretti al Pasubio. Venni a sa- pere più tardi che, siccome il rifugio Lancia era occupato in quel momento dai Tedeschi, si accorsero troppo tardi dei lumi e del fumo che usciva dal camino, per cui si trovarono in mezzo ad una sparatoria e nello scontro i due Inglesi, poco pratici del luogo, furono catturati dai Tedeschi (in una contrada li videro passare) e trasferiti a Bolzano in campo di concentramento, dove morirono. Il Maggiore Wilkinson restò molto scosso dalla cattura di « Rossi » e del suo aiutante. Ricordo l’ultima volta che il Maggiore partì da questa casa, si trovava a questo tavolo, era pensieroso e con la testa fra le mani disse: «Io pensare di non partire da qui». Facendo finta di non capire io gli dissi: «Ma non vorrà fermarsi in Posina anche dopo la fine della guerra?». «No» disse lui «io fare stessa fine di «Rossi».

 

GLI ITALIANI IN MISSIONE

Tra gli Italiani che passarono di qui ricordo «CONTE» (g), il quale era romano e restò assieme ai partigiani fino alla Liberazione. Non molto tempo dopo la morte del Maggiore Wilkinson bussarono alla porta, in piena notte, due persone che parlavano correttamente l’italiano e che si presentarono come una missione alleata. Sul momento restai dubbiosa, ma poi si identificarono. Uno di essi era un palermitano, mi sembra di nome Puglisi o Pugliesi, mentre l’altro, l’operatore, credo fosse di Monza.

IL NOBILE FIORENTINO E VASCO
Sempre in argomento di rifugiati pericolosi ospitammo per molti mesi anche un giovane di Firenze che noi si chiamava «il Bobolo» (dei conti di Boboli), il quale era stato torturato dalla banda Carità e soffriva di lesioni ai reni conseguenti alle staffilate e alle percosse ricevute sulla schiena. Assieme ad un suo amico toscano di nome Vasco, il giovane di Firenze era riuscito a sfuggire ai Tedeschi mentre lo deportavano in Germania. Arrivò dalle nostre parti e con Vasco restò da noi fino ai primi di aprile del 1945; purtroppo era molto ammalato (anche lui non teneva l’urina per le percosse alla schiena) e in aprile andò in una villa verso Monselice, di dove mi è stato detto fu trasferito a Padova e qui morì. Un anno dopo venne a Posina una sua zia, molto distinta e ingioiellata, per vedere i luoghi dov’era vissuto suo nipote durante la guerra e per ringraziarci.

I COMANDANTI PARTIGIANI
Dal momento che la Missione inglese del Maggiore Wilkinson si trovava a casa nostra, come base di appoggio, passarono di qui molte staffette e tutti i Comandanti partigiani delle nostre zone, con lunghissime riunioni proprio attorno a questo ta- volo. << Alberto » (Nello Boscagli), « Giulio » (Valerio Caroti), « Sergio » (Attilio Andreetto), « Carlo» (Alberto Sartori), « Turco» (Germano Baron), « Pigafetta » (Pio Marsigli). « Alberto » e « Carlo » erano difficili da capire, « Sergio » aveva una grande carica di simpatia, « Turco » era un coraggioso e un po’ impulsivo, « Giulio » era calmo e deciso e studiava attentamente le azioni. Ho sentito parlare anche di << Nettuno » e di « Ermes » e ricordo la « Mery ». « Silva » (Francesco Zaltron) è rimasto nascosto da noi per una settimana, ma quando tornò in pianura i Tedeschi lo hanno catturato. Di « Carlo » ricordo quando trasportò da Vallortigara due feriti, con un carrettino, fino a S. Caterina. Una base del Comando partigiano si trovava al di là della valle, quasi di fronte alla contrada Ganna, in quel gruppo di casette rustiche, dette Lissa, che furono bruciate durante i rastrellamenti e poi ricostruite. Il luogo si presentava comodo sia per la possibilità di fuggire a monte sia per la vicinanza con la missione « Freccia ».

 

Posina, contrada Ganna, 24 agosto 1977

Il testo della presente intervista è stato sottoposto a lettura ed approvazione da parte della Sign.ra Angiolina Costaganna in data 1 settembre 1977. La Signora Costaganna, figlia di Giuseppe e di Zambon Dosolina, è nata il 25 maggio 1895.

 

 

Riportiamo una «nota» pubblicata in A. Chilesotti (op. cit.):
Della fine tragica di Freccia si ebbe notizia attraverso un comunicato stampa, datato da Bologna, e apparso a Liberazione avvenuta, che diceva: «Con due condanne a morte è terminato il processo alla Corte Alleata per i crimini di guerra, davanti alla quale sono comparsi il sergente tedesco Michael Kripps e i soldati Leonardo Moser, Rodolfo Morandell, Giuseppe Scribus e Giuseppe Schenk della polizia trentina, responsabili della «Freccia». Alla fine la Corte uccisione del maggiore inglese partigiano noto col nome di
ha condannato a morte il sergente Kripps e il soldato Moser: l’uno per aver dato l’ordine di uccidere il prigioniero, l’altro per aver eseguito l’ordine. Il Morandell per aver sparato su un fuggiasco è stato assolto non avendo commesso un atto illegale e gli altri due sono stati pure assolti per essere rimasti estranei all’uccisione».

BIOGRAFIA E PROFILO IN RICORDO DELL’ING. ERVY PERRONE

Alla fine del secolo scorso i Perrone erano una di quelle facoltose famiglie della media borghesia piemontese che avevano tutti gli influssi del savoir faire e della cultura francese e che erano usciti dall’epoca risorgimentale con un profondo senso della Patria. In tale clima familiare e per esigenze di lavoro del padre, Ervy Perrone nacque ad Aubonne (Francia) il 7 giugno 1879 da un impresario edile, Placido, e da una Fenoglio. Il ragazzino ebbe quindi modo di apprendere la lingua francese e con essa i suoi classici, ch’egli da anziano leggeva ancora in originale. Dopo gli anni del Ginnasio-Liceo a Torino, Ervy conseguì la laurea in Ingegneria civile nel 1903. Con la Prima Guerra Mondiale, ormai verso la quarantina, l’Ing. Perrone partì volontario nel Genio e infatti lo ritroviamo da noi, sotto il Novegno a S. Caterina, come Tenente addetto ai legnami per le trincee, in collegamento con una segheria di Schio. Nel 1918 muore la sua prima moglie Severina Gai. Per caso e per curiose vicende egli conosce l’Angiolina Costaganna, una fiorente ragazza profuga da Posina, e quando finisce la guerra torna a Torino e la sposa. Ne ebbe quattro figli: il primogenito Ervy, poi Silda, Lido e Telma. Il fascismo venne da lui accolto con perplessità e infine con rifiuto all’impronta da caserma ed alle parate d’obbligo, al termine delle quali l’Ingegnere soleva togliersi fez e orbace a suon di commenti salaci durante il tragitto verso casa.
Inserito con varie attività nella sua professione, l’Ing. Perrone avviò infine a Torino una piccola industria di manufatti di gomma stampata, che gli diede molte soddisfazioni e un discreto profitto. Ma quando ebbe inizio la Seconda Guerra Mondiale, le difficoltà del momento, i bombardamenti e la rabbia di dover << trafficare » con tutti ed anche con i Tedeschi, lo convinsero a vendere il tutto per trasferirsi a Posina con la famiglia, nei paesi della moglie Angiolina, dove appunto ebbe inizio la lunga e tormentata storia della Missione << Freccia » e dei suoi amici partigiani.
L’Ingegnere era un uomo di statura medio-piccola, asciutto, con occhi cerulei indimenticabili, quasi completamente calvo, con un portamento e un tratto signorile che incutevano rispetto, soggezione e fiducia; sotto l’innata sua riservatezza nascondeva una profonda umanità. Nel 1945 – con la Liberazione egli aveva per- duto, a 66 anni, oltre che l’azienda e il piccolo capitale con essa accumulato, anche la buona salute. Inoltre, per la sua dirittura di galantuomo e per un temperamento alieno da compromessi, non volle mai farsi vanto per ottenere vantaggi dagli eccezionali suoi «meriti resistenziali», anzi questi gli furono di danno nel reinserimento della sua famiglia a Torino. Quando il primogenito Ervy tornò dall’Italia del Sud, dove aveva lavorato come militare a Bari per gli Inglesi, non vi era in casa Perrone nemmeno un vestito decente; la figlia Silda, iscritta alla facoltà di Chimica, il figlio Lido (Ingegneria) e la Telma (Matematica), nel disagio e nelle difficoltà del dopoguerra non poterono conseguire la laurea. L’Ing. Ervy Perrone visse in Posina gli ultimi suoi anni svendendo i quadri e i mobili della casa tori- nese, finché la sua grave forma di diabete lo portò a morte a Torino, il 25 marzo 1955.
La sua vita merita un attimo di ripensamento: il fondo risorgimentale piemontese, la ripulsa ai metodi del fascismo, un sentimento profondo della Patria da lui intesa in quel momento come nazione libera dall’occupante tedesco, un innato « buon cuore » italiano verso chiunque si trovò nei guai, furono gli ele- menti fondamentali che spinsero l’Ing. Ervy Perrone, ormai anziano, a mettere in grave pericolo e in difficoltà finanziarie se stesso e la sua famiglia.
Una lapide, che attende ancora l’inaugurazione, è stata murata da un paio d’anni sulla casa Perrone in Posina a ricordo dell’Ingegnere e del Maggiore Wilkinson a lodevole cura dei modesti partigiani della formazione garibaldina «Battisti» della «Garemi».
Ma se noi oggi, a distanza di trentadue anni, ci fermiamo per un attimo a considerare ciò ch’egli da partigiano fece per gli Ebrei, per i prigionieri inglesi sbandati, per la causa alleata della missione inglese «Freccia», per il nobile fiorentino, e ciò che inoltre egli soffrì nel difficile reinserimento della famiglia a Torino per essere stato « partigiano » e se infine consideriamo ciò che di poco e di tardivo egli ebbe a riconoscimento dell’opera sua, nelle storie patrie, tutto questo ci anima nel proseguire le nostre ricerche sulla Resistenza dimenticata.

Schio, 8 settembre 1977
E.T.

I dati biografici essenziali ci sono stati riferiti dal figlio Geom. Ervy Perrone di Schio.

La lapide sopra accennata reca il testo seguente: «Nella casa partigiana dell’Ing. Ervy Perrone, rifugio di tutti i perseguitati e base di tutti i combattenti per la libertà fu lungamente ospitato il Maggiore J.P. Wilkinson «Freccia» comandante della missione alleata inglese che cadde da partigiano l’8 marzo 1945, a ricordo di entrambi. Nel 30° anniversario della Liberazione i partigiani della «Brigata Battisti» – Posina, 1975. È necessario precisare che la «Brigata Battisti» è una formazione garibaldina della «Garemi» che operava nel Trentino.

 

NOTE

(d) Abbiamo testimonianza che «Freccia» anche in Asiago parlò confidenzialmente di questo luogo meraviglioso, nel quale c’era una pagoda e dove lui disponeva di uno chalet. Birmania?
(e) A riconoscimento dell’opera svolta dalla famiglia Perrone, la signora Angiolina conserva uno dei piatti d’argento che gli Alleati distribuirono in zona e recante la dicitura: La no 1 Alla famiglia Perrone in ricordo del contributo offerto alla causa alleata Special Force – Maggio 1945». L’incisione conferma l’appartenenza del Maggiore Wilkinson (<« Freccia ») a « special force».
(f) Abbiamo accertato per altre fonti che si chiamavano «Bill» e Archie».

(g) Abbiamo notizia che si tratta di Costante Armentano Conte, oriundo calabrese ma trapiantato a Roma. Avvocato penalista.

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