I Parenzo a Rosà
Riportiamo la ricostruzione presente nel libro di Sara Parenzo,
Il posto delle capre. Una storia familiare, Cierre edizioni, Sommacampagna 2020, pp. 51-56.
Si ritrovarono tutti insieme per l’ultimo, straziante addio, il 30 settembre 1943, per la festività di Rosh Ha-Shanà, il Capodanno ebraico. Il giorno dopo, la mia mamma che aspettava un altro bambino, Renato e il piccolo Robi, con l’aiuto di un grande eroe sconosciuto, il Maggiore dei Carabinieri Alberto Vasio collegato con i partigiani di Otello Pighin, dovettero decidersi a lasciarli.
Si andarono a rifugiare sul Monte Grappa, sopra Bassano, in una località chiamata Val Rovina, dove era stato trovato per loro un nascondiglio, in una stalla di contadini che non seppero mai che erano ebrei. […]. Invano la mamma aveva supplicato i suoi genitori di andare con loro, disperatamente li aveva invocati di darle almeno la bambina. […].
Al momento di lasciarsi, abbracciandola, la nonna Ada le aveva detto: «Se questo bambino sarà un maschietto, vorrei tu lo chiamassi Sandro». E il 20 maggio 1944, all’Ospedale di Bassano del Grappa, nacque Sandro, il mio secondo fratellino. Era scesa a piedi dai monti, la mia mamma, per far nascere quel bambino; non aveva il pancione grande come quello che le impedì di ballare il capodanno del ’42, c’era poco da mangiare in quella stalla («voi non sapete cos’è la fame») e l’inverno lassù era stato tanto freddo. Non ce la faceva a nascere da solo, il povero Sandrino. La mamma si recò all’Ospedale di Bassano dove la prima persona che incontrò fu il professor Palmieri, primario ostetrico, amico della famiglia Cavagnis, che la conosceva bene. «Ma sei pazza?» le disse quando la vide. La immagino, lei, col suo bambino che voleva nascere e i suoi ventidue anni e un fazzolettino in testa per sembrare una contadina. «Ma sei pazza? Cosa fai qui? Non lo sai che i tuoi li hanno presi tutti?». Quella scarica di corrente elettrica che la trapassò e la incenerì e modificò ogni sua cellula per sempre, mi pare di percepirla ancora, perché ce la descrisse un numero infinito di volte. «Così mi disse proprio “Ma sei pazza? Ma non sai che i tuoi li hanno presi tutti?”».
Li avevano presi, infatti, a Tirano, al confine con la Svizzera, il 16 dicembre 1943, quando, dopo che il 30 di novembre era scattato l’ordine di arresto e di internamento per tutti gli ebrei, disperati avevano trovato la forza di partire. «Mio papà aveva già passato il confine, ma i tedeschi fermarono mia madre e mia sorella, e lui tornò indietro e disse “Prendete me e lasciate la bambina”. E li hanno presi tutti». Li presero a seguito di una delazione: la direttrice del negozio di Padova, M. B., cui mio nonno aveva dato tutta la sua fiducia e le doppie chiavi della cassetta di sicurezza della Banca di Lione dove, in tempi migliori aveva depositato i suoi risparmi, li aveva denunciati. Quando mia madre andò a Lione dopo la guerra […], la cassetta era stata già aperta e svuotata.
Tornata in Val Rovina, con il suo Sandrino in braccio e il cuore a pezzi, la mamma trovò il piccolo Robi che l’aspettava disperato saltando in piedi sul lettino, aggrappato con le manine alle sbarre chiamandola “mamma!”. «Me lo ricordo ancora con la sua boccona spalancata che mi chiamava». Per loro trovò la forza di continuare a vivere. «Ma faceva freddo su quei monti, non avevo latte e Sandrino era tanto piccolo e per scaldarlo dovevo legarlo tutto stretto stretto con delle fasce».
Alla fine di settembre del ’44, per cercare qualcosa per coprirlo, la mamma si decise a venire a Padova. Doveva essere per certo dopo il 26. Scendendo a Bassano, infatti, vide i corpi dei partigiani impiccati ciascuno a un albero della piazza”’, e quei poveri corpi con le mani legate dietro alla schiena e un cartello sul petto con scritto “BANDITO” li impresse nella sua mente per sempre. A Padova, poi, allertata da un vicino che l’aveva vista entrare nel suo appartamento, quando era già fuori per strada e si sentiva in salvo con in mano le preziose coperte per i suoi piccoli, arrivò la milizia repubblichina e le chiese nome e documenti. «Voi non sapete cos’è la paura. Documenti non ne avevo e di tutti i nomi che avrei potuto dire me ne venne in mente solo uno, Vigevani, che era il nome ebreo più ebreo di tutti i nomi ebrei che avrei potuto trovare». La arrestarono e la portarono al Comando dei Carabinieri. Aspettò lì da sola, terrorizzata per ore, ma poi qualcuno, non si seppe mai il suo nome, se la fece consegnare. «Me ne occupo io di questa donna» disse e, usciti di lì, la aiutò a ritornare in salvo. «Voi non sapete cos’è la paura». […].
«Andare in su si fa presto, ma andare in giù si fa tanta fatica», questo diceva sempre la mia mamma, ed io e Lisa l’abbiamo bene impresso nella nostra mente e adottato come nostro motto. Le era venuto un giradito tagliando i cardi lassù nei monti, e quanto le fece male e quanto tempo durò tutto quel male se lo ricordava ancora, anche se per i cardi aveva una grande passione; ma non ha mai più mangiato formaggio per tutto il resto della vita perché «l’odore di latte delle malghe me lo sento fino dentro al cervello, mi fa morire».
Nella stalla di Val Rovina avevano portato con sé anche la zia Ada, una zia di Renato che lo aveva cresciuto da quando aveva perduto la mamma. Forte, energica, dura come il granito, dama della Croce Rossa, era stata di grande aiuto a mia madre nei primi tempi lassù; ma poi si ammalò gravemente, non volle andare all’Ospedale di Bassano per paura che la riconoscessero e risalissero a tutti loro, e morì tragicamente in un mare di sofferenza. Si cominciò allora a mormorare in giro per il paese che quella strana famiglia di sfollati non aveva fatto un funerale cattolico. La situazione era diventata pericolosa, i contadini sospettavano. «Voi non conoscete i contadini». Da qui bisognava andarsene: era il dicembre del 1944, si sentirono perduti. Ma un amico, venuto a conoscenza di quel loro vagare disperato, Bepi Gerolimetto, un ragazzo di venticinque anni, veterinario, appassionato di cavalli da corsa, li salvò, offrendo loro un nascondiglio nella sua grande casa patriarcale a Cusinati di Rosà, sulla strada che porta a Bassano. Rischiava la vita sua e di tutta la sua famiglia, di sua madre, dei suoi fratelli, delle sue sorelle e di tutti i suoi nipoti. Ma a nessuno di loro disse mai che erano ebrei. Rimasero lì fino quasi all’estate del ’45.
E poiché quando si va avanti nella vita spesso le situazioni si intrecciano e si annodano, qualche mese fa, per puro caso, dopo sessant’anni, io ho conosciuto una di queste nipoti, Betti Pieropan, che allora aveva solo dieci anni ed era sfollata Iì anche lei, nella casa di Cusinati. «Ero piccola, andavo ancora alle elementari, ma me li ricordo vividamente», mi disse, «Sandrino di pochi mesi e Robertino che era tanto piccolo anche lui, e tuo papà che la domenica andava alla messa con gli altri per non destare sospetti, e la tua mamma, bellissima e altera, che a messa non volle andarci mai». Ci siamo abbracciate per ore, dopo esserci conosciute, e ora ci incontriamo spesso, perché lei ha compreso la mia fame disperata di sapere ancora di loro. «Vennero a trovarci dopo la guerra, nel ’46, a Ponte di Brenta dove abitavamo, la tua mamma e il tuo papà e i tuoi fratellini. Tua madre aveva appena saputo che i suoi erano morti tutti, era interamente vestita di nero ed era distrutta dal dolore».