Il viaggio

Il viaggio

La nave

La nave Henry Gibbins (già Empire State III), fu lanciata nel 1942 e fu assegnata al servizio di trasporto dell’esercito il 27 febbraio 1943. Fu rinominata Henry Gibbins durante la seconda guerra mondiale.

È diventata famosa grazie al libro Haven di Ruth Gruber. Oltre ai rifugiati, circa 1000 soldati americani feriti nelle battaglie di Anzio e Cassino erano presenti sulla nave. Il viaggio verso l’America avvenne in un convoglio di 29 navi, incluse 16 navi da guerra. Su ciascun lato della Henry Gibbins c’erano navi che portavano prigionieri di guerra nazisti, andando a costituire così una protezione in più dagli attacchi degli U-Boats tedeschi.

Nel 1950 è stata trasferita al servizio di trasporto militare  della Marina ed è stata usata per il trasporto della truppe fino al 1959.  Nel 1959, è stata trasferita alla gestione marittima, ha cambiato il nome in Empire State IV ed è stata destinata a nave di addestramento per l’università marittima di New York.

 

Il viaggio

Al di là dell’organizzazione dei primi giorni e dell’individuazione delle regole di vita sulla nave, il racconto del viaggio fatto da Ruth Gruber nel suo libro Haven si sofferma soprattutto su alcuni aspetti chiave della permanenza sulla Henry Gibbins:

  • la quotidianità (il cibo e la sistemazione, le lezioni di inglese, le performance musicali e così via)
  • i primi attimi di terrore vissuti a causa di un incursione area dei tedeschi (pp. 79-84) e di un attacco degli U-Boat (pp. 95-97)
  • le necessità e i sogni degli internati, tra cui emergono con prepotenza il desiderio di avere più particolari sulla destinazione, sull’ospitalità, sulla possibilità di andare a scuola
  • le tensioni presenti sia tra gli ebrei, sia tra i soldati americani
  • la raccolta delle testimonianze dei rifugiati.

Quest’ultimo punto è tra i più importanti perché permette di conoscere le storie dei rifugiati, tutte diverse, ma tutte accomunate dalla fuga dinanzi all’orrore della persecuzione nazista.

Dolly Sochaczewska, una rifugiata polacca di 44 anni, si sfogò con Ruth Gruber:

I am a refugee, just a single world. The meaning of the word refugee can be understood only by those who have heart and are willing to understand.

Un giorno, dopo la lezione d’inglese, Dolly approcciò Ruth: “Sono stanca ora, ma devo parlare con te quando sarò più riposata, quando il mio cuore smetterà di battere così forte. Tu sei la nostra testimone. Tu sei la nostra speranza nella nuova terra. Posso vederti più tardi?

Così nel tardo pomeriggio Dolly e Ruth si rincontrarono. “Sono sola – cominciò Dolly. Appartengo alle displaced persons. Non c’è nessuna strada per tornare al mio paese. Questo è il motivo per cui ho bisogno di parlare con te. Devo continuare la mia vita. Fino ad ora non ho potuto parlare con nessuno. Appena prima del nostro arrivo sulla nave, ho saputo che tutta la mia famiglia, genitori, tre sorelle, tre fratelli, e il mio fidanzato, sono stati assassinati – prima torturati, poi uccisi. La Polonia, la mia fuga, la mia vita in prigione, poi in un campo di concentramento – non dimenticherò mai queste cose. Ma sono sorpresa di che tipo di scherzo mi ha tirato il destino. In tutti i luoghi in cui siamo stati bombardati, ho provato ad aiutare gli altri. Volevo aiutare coloro che aiutano la vita. Ma non potevo parlare della mia vita senza aprire le ferite, senza strappar via le croste. La mia vita è una ferita aperta.”

Ruth cercò le parole adatte per mostrarle vicinanza e comprensione, ma Dolly la fermò: “No, non parlare. Mi hai aiutata – semplicemente ascoltandomi”.

(Da Ruth Gruber, Haven, pp. 111-112)

Le storie raccolte da Ruth Gruber (*) sulla Henry Gibbins

Had I heard enough for today? Could I absorb any more?

1. La storia di Abe Furmanski (pp. 70-72)

Proveniente da Varsavia, 35 anni, con la faccia e i muscoli di un lottatore, Abe si sedette accanto a Ruth Gruber sulla copertura del boccaporto, per raccontarle la sua storia.

Vuoi conoscere le nostre storie. Ti dirò quello che i nazisti e i francesi di Vichy ci hanno fatto in Francia.

Tu devi scriverlo. Il mondo deve sapere. Ho ascoltato persone dire che le cose che ci hanno fatto sono solo propaganda. Come la propaganda nella Grande Guerra. Quello che ti dirò non è propaganda.

Ero in Francia quando i tedeschi entrarono  il 16 di giugno 1940. Un capitano tedesco di 26 anni, il suo nome era Capitano Danniker – era il commissario nazista a Parigi per gli affari ebraici – mandato a parlare con Rabbi Julien Weill, il Grande Rabbino di Parigi.

Danniker diede un ordine: ‘Rabbi, esigo che tu costituisca un Consiglio Ebraico di sette uomini, francesi ed ebrei stranieri, per collaborare con i tedeschi.’

Noi non collaborammo. Sabotammo in tutti i modi che potevamo. Tutti noi con il Rabbino Weill eravamo pronti a pagare, con le nostre teste e le nostre vite, e molti di noi lo fecero. Creammo il nostro movimento clandestino e riunimmo tutte le organizzazioni politiche e religiose ebraiche.  Cominciammo a portare di nascosto gli ebrei verso la zona libera nella Francia non occupata. Ma sfortunatamente molti furono catturati dai gendarmi francesi di Vichy. Ovunque i nazisti catturavano uno di noi, c’erano terribili rappresaglie. Il Rabbino Weill fu gettato in prigione. Non so se è sopravvissuto alla tortura.

22 agosto, 1941. non dimenticherò mai quel giorno. I nazisti presero 6500  ebrei – bambini, uomini, donne che stavano nutrendo i loro bambini – e buttati nel terribile campo di concentramento di Drancy, vicino a Parigi. Poi li portarono in Polonia. C’erano alcuni bravi francesi, come i gruppi gollisti che aiutarono gli ebrei a volare in Spagna e in Svizzera e didero loro falsi documenti e soldi. Ma molti francesi…uh. Non posso guardare più le persone francesi. Costruirono il campo di concentramento di Gurs dove molte migliaia di ebrei furono internati. (…).

Clandestinamente cercammo di tirarne fuori da Gurs centinaia. Ne portammo fuori una manciata. Poi arrivò  il peggio. Tutta la Francia fu occupata dai tedeschi. Cominciarono gli omicidi di massa.

Negli autocarri chiusi costruiti per metterci venti persone, i tedeschi ne pressarono cento e più.  Calce viva era stata messa sul pavimento, dieci pollici di altezza. Le porte furono chiuse ermeticamente nm modo che l’aria non potesse uscire. Le persone dovevano urinare – ciò cominciò a riscaldare la calce. I gas e i fumi salirono e li portarono alla morte. I corpi furono gettati in forni speciali e bruciati.”

Pensavo di non poter ascoltare più nulla, ma ascoltai. “I nazisti dicevano tutto il tempo, ‘Uccidi i russi con le pallottole, Uccidi gli ebrei con la calce’ “.

 

2. La storia di Henry Macliach (pp. 72-74)

Il signor Macliach, dottore in medicina, maggiore dell’esercito jugoslavo, di anni 44, racconta così la sua storia a Ruth Gruber, invitandola a prendere appunti: “Prendi nota di tutte le nostre storie. Prendi tutto l’orrore. Noi lo abbiamo vissuto. Noi vivremo con l’orrore per il resto della nostra vita. Ma tu sei la prima a cui possiamo raccontarlo. Sì, scrivi, così il mondo lo saprà.”

La mia storia può darle alcune immagini di quello che ci successe nel marzo del 1941 quando Hitler emise i suoi ordini riguardanti la Jugoslavia. Li posso sentire mentre si dicono l’un l’altro, ‘Abbattili più velocemente possibile. Distruggi Belgrado dall’aria.

Ti ho detto di scriverlo. Ma nessun notebook e nessuna penna può descrivere quello che ci hanno fatto.

Il nostro esercito non poteva resistere ai nazisti. Ogni giorno i tedeschi allineavano le persone che ancora avevano il coraggio e la forza di battersi contro Hitler. Ebrei, nazionalisti, comunisti, radicali, professori, insegnanti, intellettuali – ognuno era un sospetto. Ogni singolo giorno 500 persone – l’ho visto con i miei occhi – venivano uccisi dalle mitragliatrici. Ogni giorno per sei mesi! Dopo le uccisioni legavano ciascun cadavere alle demolizioni e li facevano saltare in aria.

Forse tu non credi a queste cose, giovane donna dell’America. E perché dovresti? Cosa conoscete voi in America, migliaia di miglia lontana, di ciò che i tedeschi ci hanno fatto? Perché dovresti credere che i bambini non ancora  in età per andare a scuola erano inclusi tra i 500? Perché dovresti credere che nell’ospedale dove lavoravo come fisico 70 uomini furono chiusi per otto giorni in un piccola stanza come un gabinetto senza cibo o aria? Loro non avevano bisogno di cibo o aria quando i loro corpi furono tolti dalla superficie terrestre.

E quale fu il crimine commesso da 2000 uomini? Furono selezionati a dicembre per andare nei boschi per tagliare legno per i tedeschi, per tenerli al caldo. Tagliarono e segarono ogni giorno per tenere al caldo i tedeschi in quel duro inverno. A gennaio, furono mandati fuori in una terribile tempesta di neve e non ebbero il permesso di tornare indietro per la notte. Due giorni dopo, quando la tempesta cessò, tutti i duemila uomini furono trovati congelati e rigidi nella neve.

Qual era il loro crimine? Erano ebrei. 

Posso leggere nei tuoi occhi che stai chiedendo, Come sono sopravvissuto? Come tutti noi su questa nave siamo sopravvissuti quando la maggior parte degli ebrei della Jugoslavia furono uccisi nelle fosse comuni o sulle sponde dei fiumi o deportati verso i campi della morte?”

Sputò fuori le parole. “Siamo sopravvissuti correndo”. Si voltò d’un tratto e sparì nella folla. Io richiusi il mio taccuino.

 

3. La storia di Samuel Silberman (pp. 74-76)

Samuel, 32 anni, era stato pellicciaio a Tarnow, in Polonia. Nel 1928 Samuel, la moglie Breindel e i due figli si erano trasferiti a Bruxelles dove molti ebrei si erano stabiliti e nel 1940, con l’occupazione del Belgio da parte dei tedeschi cominciarono a fuggire.

Pensavamo che la Francia sarebbe stata sicura. Noi lasciammo tutto quello che avevamo e prendemmo solo le poche cose che potevamo portare facilmente. Perdemmo anche quelle nella ferrovia.”

Con centinaia di persone raggiunsero Boulogne sulla costa francese e si nascosero in una cantina. Per tre giorni rimasero senza cibo e acqua. I soldati belgi che scapparono dai nazisti con loro portarono del vino per sostenerli. “Quella fu l’unica cosa che i nostri bambini ebbero – vino”. Il quarto giorno, anche Boulogne cadde.

Guardavo fuori dalla cantina. Gli ufficiali tedeschi stavano in piedi nei carri armati e guardavano intorno in ogni angolo della strada con i binocoli. I soldati stavano in piedi nelle macchine militari puntando le mitragliatrici. Fummo così ingenui. I tedeschi sembravano così gentili. Dissero a noi e ai soldati belgi, ‘Andate a casa. Il Belgio è libero’. Noi pensammo – immaginate quanto eravamo stupidi – che i tedeschi avessero raggiunto tali vittorie che avrebbero dimenticato gli ebrei”.

Tornarono a Bruxelles per scoprire che i tedeschi avevano già emanato delle leggi speciali contro gli ebrei.

“Poi nel giugno del 1942 arrivò l’ordine: tutti i ragazzi e le ragazze tra i 15 e i 20 anni devono andare a Mechlin a lavorare. Gli dissero di prendere vestiti da lavoro, cibo per dieci giorni, piatti. Furono avvertiti che se non fossero andati, tutti gli ebrei sarebbero stati considerati responsabili”.

Pensammo che quei ragazzi stessero andando a lavorare” – disse Breindel. “Ma era una bugia. Mechlin era il posto in cui assemblavano le persone e le spingevano nei carri bestiame e li mandavano in Polonia. Ogni giorno alla stazione, un migliaio di meravigliosi ragazzi  e ragazze arrivavano, portando i sacchi da montagna, e ogni giorno cinquemila adulti arrivavano con loro, genitori, parenti, piangendo alla partenza dei loro figli”.

Samuel continuò il racconto: “Dopo che i giovani furono partiti e loro erano i giovani uomini e le giovani donne che avrebbero potuto combattere contro i tedeschi, i tedeschi cominciarono a portar via gli anziani. Bloccavano le strade e prendevano tutti gli ebrei che trovavano. Gli ebrei cominciarono a nascondersi di giorno, così i tedeschi lavoravano di notte. Entravano in ogni casa. La prima notte presero più di tremila ebrei.

Molti di noi si unirono alla Brigada Bianca per fare lavori clandestini. Eravamo molto attivi; entravamo negli uffici e bruciavamo documenti con le liste dei nomi degli ebrei. Sabotavamo i treni che portavano materiale grezzo dal Belgio alla Germania; assassinavamo i collaborazionisti belgi; facemmo anche dei raid negli uffici che stampavano i biglietti per il pasto. Ogni mese ottenevamo duecentomila biglietti per il cibo. Noi li distribuivamo clandestinamente al movimento di resistenza, agli ebrei”.

Per quanto riguarda i bambini, “li nascondemmo in un monastero belga. Molti degli ebrei nascosero i loro figli dai monaci, dalle suore e dai contadini. Il 95% delle persone belghe erano molto buone nei confronti degli ebrei. Ma poi divenne dura per i belgi. La Gestapo irrompeva nelle loro case alla ricerca di ebrei. Ogni giorno articoli su un giornale antisemita, L’ami du Peuple, scriveva, ‘Non ditemi dove vive un ebreo, ditemi soltanto il suo numero di telefono; lo prenderemo e tu sarai ricompensato’. Diventò impossibile rimanere. Decidemmo di tentare la fuga. Ma i bambini erano troppo piccoli per correre con noi. Non sarebbero mai sopravvissuti. Noi dovevamo prendere la decisone più terribile della nostra vita. Dovemmo lasciare i nostri figli – nel monastero belga. Li ritroveremo ancora?

 

4. La storia di Matilda Nitsch (pp. 76-78)

Sono cattolica, cattolico-romana. Non potevo capire perché uccidessero gli ebrei che erano persone innocenti, così li ho aiutati a fuggire. Rubavo passaporti falsi dallo stesso capo della polizia. Avevo una Pensione a Susak, sulla costa nord della Yugoslavia, sebbene sia austriaca di nascita e cittadina ceca perché ho sposato un officiale ceco. Ma non ho più sentito nulla di mio marito dagli inizi della guerra. Ero molto felice a Susak. Ho vissuto lì per 15 anni. Poi i nazisti arrivarono e cominciarono a sbattere le persone in prigione. Fu allora che decisi di aiutarli a scappare. Li nascosi nella mia Pensione, li diedi dei passaporti falsi che avevo rubato, e poi li portai da altri amici a Fiume.

Fiume è giusto la porta accanto di Susak, ma appartiene all’Italia. La maggior parte degli italiani – sebbene non la polizia segreta – sono molto meglio riguardo agli ebrei rispetto ai nazisti. Così di notte, a Fiume, noi mettevamo le persone sulle barche che le portavano attraverso l’Adriatico verso l’altra parte dell’Italia, dove speravamo che i contadini italiani li avrebbero nascosti.

Alla fine, l’OVRA, la polizia segreta italiana, mi ha catturata. Fu allora che mi misero in una cantina per il deposito di ghiaccio per dieci giorni per farmi parlare. Non c’era aria. Dell’acqua ghiacciata gocciolava sulla mia faccia e sulla testa e il soffitto e i muri. L’acqua era nelle mie scarpe e sui miei piedi. L’acqua ghiacciata era ovunque.

L’OVRA voleva sapere chi lavorava con me. Alcuni dei miei amici erano i poliziotti stessi a Susak e a Fiume. C’erano degli altri anche. Noi tutti lavoravamo insieme per aiutare le persone a scappare. Non avrei mai fatto i loro nomi. Non avrei detto nulla.

Alla fine l’OVRA capì che non potevano scoprire nulla, così mi mandarono al campo di concentramento di Ferramonti. Sono stata lì per 4 mesi, ma ho continuato a non dire nulla.

Non ne so molto di politica. Sono qui solo perché ho salvato gli altri. Non volevo nessun altra ricompensa. Dio vedrà che mi sono presa cura di loro a dispetto del fatto che sono così povera.

Ora, andando in America, le mie più grandi speranze stanno avendo una risposta. Per favore, dica alle persone dell’America che le ringrazio infinitamente.”

 

5. La storia di Olga Maurer (pp. 85-97)

Siamo scappati da Vienna verso l’Italia, mio marito, mio figlio Walter ed io. Quando i nazisti sono arrivati, gli italiani prima ci hanno nascosti in un tunnel, poi corsero con noi verso le montagne fino a quando alcuni soldati canadesi di pattuglia vennero a dirci, ‘niente più nazisti’. Ci furono tali festeggiamenti per noi da parte degli italiani! Ebbi una tale luna di miele, alla mia età, con Leon! Fu allora che rimasi incinta”.

Nonostante Olga fosse al nono mese la sua domanda e quella della sua famiglia per far parte dei 982 della Henry Gibbins fu accettata.

Fu messa su una macchina e fu portata per la notte nell’ospedale femminile di Potenza. Un dottore la esaminò e la assicurò che il bambino era ancora alto ventre. Il mattino seguente Olga andò fuori dall’ospedale  per vedere un convoglio di autocarri pieno di rifugiati provenienti dall’area di Potenza. I veicoli erano gli autocarri degli ebrei palestinesi con la stella di Davide di cui Max Perlman aveva parlato a Ruth Gruber a Napoli.

I medici palestinesi e americani le prepararono un letto sul retro di una jeep, ammucchiando materassi e le coperte di lana dell’esercito color kaki su un letto dell’esercito. Si unirono al convoglio per il percorso di cento miglia verso Napoli, attraverso le montagne.  Con Olga c’erano due medici, di cui cecoslovacco come lei.

Olga cominciò a sentire le contrazioni e a chiamare il dottore che la pregò di aspettare almeno qualche minuto, dato che di lì a poco avrebbero raggiunto il quartier generale dell’unità palestinese, dove c’era un campo e tutto l’occorrente per farla partorire.

Ma il bambino spingeva. Fermarono la jeep. Erano le 12 dell’11 luglio del 1944, le campane suonavano.

Tutto il convoglio si fermò, preoccupato per qualche raid aereo o per il sopraggiungere di  altri problemi, ma in quell’istante il dottor Joseph Koehler si sporse dalla jeep gridando “è un bambino!”.

Uno degli uomini più anziani prese il suo scialle della preghiera e cominciò a pregare nel totale silenzio. Poi aggiunse: “Vita – dopo tutto i morenti. Dopo tutti gli assassini e le uccisioni, dopo gli incendi e la distruzione. Un bambino, un ebreo che prende il posto di un bambino assassinato, un ebreo sulla nostra strada per la libertà”.

Uno dei militari che avevano aiutato il dottor Koehler disse ai presenti: “Lo abbiamo chiamato International Harry e prediciamo che diventerà un comandante di brigata”.

 

6. La storia di Leo Mirkovic (pp. 87-88)

Leo, jugoslavo, classe 1904, cantante d’opera a Zagabria, raccontò a Ruth come, similmente a molti degli jugoslavi presenti sulla Henry Gibbins, fuggì verso Split (Spalato), sulla costa dalmata occupata dagli italiani. La polizia italiana lo arrestò, lo mise su una barca, poi su un treno, dove i prigionieri furono incatenati insieme. Determinato a sopravvivere, Leo cominciò a cantare canzoni italiane e incantò talmente tanto le guardie che tolsero le catene a tutti i prigionieri. Leo fu confinato in un piccolo paese chiamato Zibello, in Provincia di Parma.

Durante l’internamento, non avendo donne ed essendo tutti uomini soli, Leo scrisse una lettera al Podestà di Parma che gli diede il permesso di andare in casa chiusa una volta al mese.

Quando i nazisti cominciarono a deportare gli ebrei dal nord Italia, il capo della polizia di Zibello diede a Leo una bicicletta per fuggire e gli passò i nomi di alcune persone di Parma che l’avrebbero aiutato a prendere il treno per Roma, dove visse come italiano. Sulla Henry Gibbins Leo aveva ancora la sua carta d’identità sulla quale era riportato il nome di Ettore Testa.

Per un anno Leo lavorò clandestinamente, portando cibo ai rifugiati e ai soldati inglesi che, insieme ad altre persone, stava nascondendo in alcuni appartamenti. Non aspettavano altro che l’arrivo degli americani a Roma.

 

7. La storia di Manya Hartmayer, Adam Munz e Icak Wajs (pp. 85-95)

Manya Hartmayer, 22 anni, di origini polacche, sposata con Ernst Breuer,  e Adam Munz, 17 anni, anche lui polacco, raccontano la loro fuga dalla Francia.

Sono stata in 5 campi di concentramento. Ho tentato di scappare da uno di loro, ma una guardia mi ha presa e mi ha portata indietro. Per settimane sono stata in un angolo del campo come un animale. Non potevo respirare.

Sono giovane, ma il mio cuore ha duecento anni. Non so dove sia la mia famiglia: mio padre, mio fratello, Sigi e Willie. Sono bambini – di 14 e 15 anni. Li rivedrò ancora?

Vedi questa camicia? Era di papà. Me la diede quando eravamo ancora insieme nel campo di concentramento in Francia – a Rivesaltes. Ogni giorno c’erano trasporti che andavano e venivano. Misero papà su uno dei trasporti. Fu allora che si tolse la sua camicia e me la diede così che avrei potuto avere qualcosa per le notti fredde.

Poi Sigi e Willie scomparvero. Solo mamma ed io siamo rimaste, e poi un giorno fummo portate via anche noi, e finimmo nel campo di Gurs. Non potevo stare lì a vedere le facce disperate delle persone attorno a me, così ovunque avessi una possibilità cominciavo a cantare per rallegrarli. Cantavo tutte le canzoni che avevo imparato e che amavo sin da quando ero piccola: yiddish, francese, tedesco. Ho imparato perfino una canzone inglese – ‘South of the Border, Down Mexico Way’. Ogni cosa conoscessi. Dovevo rimanere viva! Ogni volta che arrivava un trasporto, correvamo a vedere chi c’era. Ogni volta che un trasporto partiva, tutte le persone che rimanevano piangevano. Sapevano che non avrebbero mai rivisto quelle persone di nuovo.

‘Non piangere’, gli dicevo. ‘Ce la faremo’. E cantavo più canzoni, e i tedeschi e i francesi continuavano a deportare gli ebrei.

Un giorno una donna francese attraversò il campo cercando bambini i cui parenti erano stati deportati. Lei aveva molti permessi per portarli via. Era stata nel campo prima e mi aveva sentito cantare, e mi conosceva. C’era un permesso per lasciare il campo, così lei chiese, ‘Dov’è la ragazza che canta?’

Mi disse che erano stati raccolti molti soldi dalle famiglie  ebree francesi per salvare alcuni bambini e portarli via da Gurs. Mi disse che dovevo andare in un orfanotrofio nel dipartimento di Cantal. Andai da mamma per dirle che non volevo andar via; non volevo essere separata da lei. Ma lei si arrabbiò molto con me. ‘Manya, se rimani, non potrò mai scappare. Devi andar via!’

Il giorno dopo – era ancora buio – salii su un autocarro con il resto dei bambini, il mio corpo era tutto scosso, stavo piangendo amaramente. Mentre ero nell’orfanotrofio, ricevetti una cartolina da papà. Era scappato verso il villaggio Saint-Martin-Vésubie vicino Nizza. In qualche modo trovò il posto in cui ero. ‘Manyele,’ scrisse, ‘i leichter stanno arrivando da te’. In yiddish leichter sono le candele. Significava il fuoco sta bruciando, il fuoco sta distruggendo; così chiamavamo i nazisti leichter, i distruttori. Era il nostro codice.

Ero di nuovo in pericolo. Il giorno successivo, molto presto, mi travestii come una vecchia signora con un babushka attorno alla mia testa. Andai alla stazione senza nessun documento d’idendità o permesso; conoscevo le conseguenze. Presi il treno per Nizza, ma dovetti scendere a Marsiglia per cambiare treno. Il treno dopo era in ritardo, così passai l’intera notte nella stazione vagando da un posto all’altro, nascondendomi negli angoli bui. Il mio cuore correva come un pazzo quando vidi una uniforme.

Alla fine il treno arrivò al mattino. Quando ci salii, mi sentii un po’ meglio. Ma subito qualcuno venne nello scompartimento e disse, ‘I Bosch stanno chiedendo a tutti i documenti.’

Mi ripresi d’animo e andai fuori dirigendomi verso il gabinetto. Mi chiusi dentro. Subito delle voci gridarono ‘Aufmachen!’ pesanti bussate battevano contro la porte. Mi dissi, Sfonderanno la porta. Non volevo aprire. Se entrano, salterò dalla finestra. Mi preparai a saltare.

Il treno si muoveva velocemente. Poi tutto all’improvviso non udii più nulla. Qualunque cosa li abbia portati via dalla porta, mi ha salvata. Trovai papà e mio fratello a Saint-Martin-Vésubie sulle montagne. Eravamo di nuovo insieme. Puoi immaginare com’è stato ritrovarsi, essere insieme.

Ma l’amica di mamma, Regina, ci scrisse che mamma era molto, molto malata. Contrasse il tifo. Perse i suoi capelli e aveva buchi in tutto il corpo laddove tentavano di far fuoriuscire il  pus. Non c’era modo di aiutarla. Pregammo ogni giorno che potesse star meglio, che potesse stare insieme a noi di nuovo.

Poi udimmo i nazisti che stavano arrivando a Saint-Martin-Vesubie. Dovemmo scappare oltre le Alpi.”

Interviene Adam Munz:

Il nostro viaggio cominciò l’8 settembre, 1943, il giorno che Mussolini capitolò (sappiamo che storicamente non è così, ma simbolicamente il discorso si riferisce all’armistizio, ndr). I soldati italiani si tolsero tutto e si precipitarono a casa. I tedeschi sapevano che molti degli italiani ci stavano proteggendo, dandoci passaporti falsi con nomi italiani. Sebbene noi dovevamo presenziare davanti alla polizia ogni giorno, ci lasciarono vivere tra i contadini che ci presero con loro. Molta gente non sa degli italiani. Non avevano cibo loro stessi, ma qualunque cosa avessero la dividevano con noi.

I soldati italiani scappavano. Noi sapevamo nelle nostre ossa che i tedeschi sarebbero venuti immediatamente e ci avrebbero uccisi o deportati. Prima dell’alba del giorno dopo, tutti noi, tutti i 1200  del  nostro villaggio, impacchettammo tutto quello che potemmo. Avevamo cestini legati intorno  con le funi, zaini e valige e partimmo per scalare le Alpi attraverso il famoso passo La Madonna della finestra, alto oltre 600 piedi.

Eravamo una lunga fila sparpagliata di persone. Puoi immaginare per quanto si estende una fila di 1200 persone. Sembravamo una fila di formiche che si inerpica  sulla montagna.

Quel primo giorno, scalammo e scalammo fino a che finalmente, esausti, raggiungemmo un pascolo di mucche. Eravamo ancora nella parte francese delle Alpi, con la paura che i nazisti sarebbero arrivati subito dopo di noi. Ancora, dovemmo fermarci. Non potevamo scalare nel buio per paura di perdere il nostro cammino o qualche persona. Così accendemmo dei fuochi,  avvolti in qualsiasi indumento avessimo. Mio padre mi diede la mia prima sigaretta. ‘Ti aiuterà a tenerti caldo’.”

Manya riprese la storia: “Provammo a dormire un po’. Forse papà si addormentò, ma io non ci riuscii. Stessi lì a immaginare mamma. Poi presto al mattino seguente cominciammo a scalare di nuovo la montagna, e ciascun passo che facevo mi portava sempre più lontano da mia madre. Penso di aver bagnato con le mie lacrime ogni pietra che ho toccato.

C’erano sempre meno alberi. Quando guardai indietro, un meraviglioso lago che passammo brillava con un piccolo gioiello. Mi fermai per un momento e mi dissi, ‘Oh, Dio, così tanta bellezza in questo mondo e non possiamo esserne parte.’

Persi la suola della mia scarpa. Qualcuno trovò un pezzo di filo metallico e attaccò la suola al suo posto. I miei piedi erano così doloranti, ma non potevo andare scalze su quelle pietre. Avevo solo vestiti estivi addosso e stavo gelando. Vidi la neve innalzarsi a picco su di noi. Dissi, ‘Papà, non so come ce la faremo.’

Continuavamo ad arrampicarci. Dovevo continuare con le mie mani. C’erano pietre e rocce. Eravamo alla testa di una lunga fila di persone. Mio fratello, Sigi e Willie, andavano indietro quanto potevano per aiutare le altre persone. Li vidi lottare sul lato della montagna, tirando le persone anziane e le donne e i bambini con  mani nude.”

Ićak Wajs, che era attorno a Manya, Adam e Ruth con molte altre persone, prende la parola:

Tu sai come sopravvivere”, disse al padre di Adam quando seppe che la famiglia Munz era fuggita da sei differenti villaggi, ogni volta giusto prima dell’arrivo dei nazisti.

La gente di 70 e 80 anni scalava quei muri. Se lo dici in America, la gente dirà che è una fantasia, ma non lo era. I bambini succhiavano i seni delle madri, e quando il latte finì succhiarono sangue. Il Rabbino Rothschild portava una Torah su un braccio e un bambino sull’altro. Adam prese il bambino e scalò con lui.

C’era un uomo che era stato reso zoppo dai tedeschi. Aveva una tale paura che prese le sue stampelle e si arrampicò con  noi. Una donna in attesa cominciò il suo travaglio eppure scalava.

Scalammo con la paura. Ma era più della paura. Era come se il vento di Dio ci guidasse – il Ruakh Elohim.”

Adam continua il racconto: “stavamo ancora scalando sul lato francese del passo La Madonna. Il lato italiano sarebbe cominciato alla sommità. Abbiamo perso alcune persone il primo giorno. Erano così spaventati del fatto che i nazisti stessero aspettando in cima alla montagna che si voltarono e tornarono indietro.

Non potevamo fermarci. Continuavamo a tentare di raggiungere la vetta della montagna. Sapevamo che il confine italiano cominciava lì sulla vetta con una postazione militare. Alla fine, nel tardo pomeriggio del secondo giorno, raggiungemmo il confine. C’erano delle larghe baracche di cemento; i carabinieri uscirono e ci accolsero. Fummo così felici di vederli. Dicemmo loro che stavamo scappando dai nazisti. Capirono. Sapevano che anche i soldati italiani stavano scappando. Ci dissero di entrare nelle baracche. Tremavamo dal freddo. Affamati, assetati, esausti, ci ammucchiammo nelle baracche uno sull’altro.

Durante la notte la donna in attesa diede la luce al suo bambino, e il giorno dopo lei scese dalla montagna con gli altri. Discendere fu più difficile che arrampicarsi per molte delle persone.

Ricomincia Ićak: “Scendemmo in una valle. Avevamo attraversato una montagna sani e salvi. Famosi scalatori qualche volta non ce la fanno. Nessuno di noi morì. Fu un miracolo. Ognuno era così stanco. Dove dovevamo andare? Arrivammo in un piccolo villaggio alpino italiano – solo per ascoltare qualcosa di terribile. ‘I tedeschi sono qui!’

Circa 500 furono catturati dalle SS. Molti furono presi nelle strade dei piccoli villaggi dalle pattuglie naziste.

Dopo tante sofferenze e perdite, dopo aver scalato quelle terribili montagne, furono deportati in Polonia – per morire.

Manya riprende la storia della loro nuova fuga dai nazisti: “Stavamo dormendo in un granaio – papà e i ragazzi. Eravamo insieme, tutti eccetto mamma. Per quanto ne sapessimo era ancora a Gurs. Al mattino sentimmo qualcuno urlare, ‘Die Deutschen sind hier. I tedeschi sono qui.’ Saltammo e corremmo indietro verso le Alpi. Gli contadini italiani furono meravigliosi, ma avevano paura di morire. Ci dissero che molti villaggi erano stati bruciati perché nascondevano ebrei.

Così ci nascondemmo nel bosco senza coperte, senza cibo, senza riparo. Mio padre scambiò il suo anello matrimoniale d’oro per un pezzo di tela di canapa, così avemmo qualcosa da mettere sulle nostre teste quando pioveva.

Corremmo verso i partigiani italiani. Nemmeno loro volevano prenderci; dissero che non avevano abbastanza cibo o munizioni. Andammo vagando nelle montagne fino a che capimmo che era troppo pericoloso stare insieme. Dovevamo separarci. Fu una decisione terribile.

In qualche modo sono finita a Roma e le meravigliose suore mi hanno nascosta in un convento per nove mesi. Se non fosse stato per loro, non ce l’avrei fatta.

Perché è così emozionante? Perché non riesco a parlarne? Nel convento non c’era cibo, solo vecchie castagne per colazione, pranzo e cena, che le suore dividevano con me per mantenermi viva. Non so dove sia mio padre. Non so dove sia mio fratello. Non so se mia madre è viva.”

Alle spalle dietro di noi, potevo sentire le persone parlare. Il medico stava dispensando pillole e conforto. I bambini stavano correndo, ridendo. Ma il nostro gruppo non si mosse.

 

8. La storia di Hans Goldberger e sua moglie Jolan (pp. 112-113)

Hans, di 47 anni, era un mercante di tessuti a Bratislava, mentre la moglie, della stessa età, era disegnatrice di modelli per vestiti. Entrambi vissero l’esperienza del piroscafo Pentcho, che sovraccarico, con 511 rifugiati, navigò lungo il Danubio nel maggio del 1940. L’intenzione era quella di raggiungere la Palestina percorrendo tutto il Danubio fino al Mar Nero.

Per quattro mesi e mezzo il battello rimase nel Danubio senza che nessun paese permettesse ai rifugiati di approdare. Nessun paese voleva dare loro cibo o acqua. Potevano vedere i ristoranti sulle rive ed ascoltare la musica proveniente dai caffè mentre morivano di fame. Dipinsero sulla nave la parola FAME in tre lingue, ma nessuno, ancora una volta, portò del cibo.

Come disse Hans alla Gruber, “il nostro equipaggio consisteva di una sola ancora, e non avevamo nessuna scialuppa di salvataggio, nessuna riserva, nessuna radio – di fatto, non avevamo nulla”.

Le navi da guerra rumene alla fine fecero entrare il cigolante battello nel Mar Nero. Il capitano, istupidito dall’oppio, li guidò in un viaggio incontrollato attraverso campi minati fino al Mar Egeo. Un motore scoppiò. Fecero naufragio nel Dodecaneso italiano. Passarono 11 giorni su un’isola rocciosa inabitata e poi furono soccorsi dalla nave italiana Camoglio.  Internati a Rodi per più di un anno, furono poi trasferiti in due tornate, il 12 febbraio 1942 e il 27 marzo 1942, nel campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia. Sulla Henry Gibbins viaggiarono 24 dei rifugiati della Pentcho.

La storia dei Goldberger s’incrocia, almeno per quanto riguarda il viaggio sulla Pentcho, con quelle di un ebreo internato a Roana. Si tratta di Wald Schachne. Anche lui sulla Pentcho e poi nel campo di Ferramenti, fu trasferito, il 24 luglio del 1942, a Roana dove era già presente il figlio Peisach. I due si allontanarono dalla provincia di Vicenza dopo l’8 settembre 1943, ma furono fermati a Roma e inseriti nel gruppo ucciso alle Fosse Ardeatine il 24 marzo del 1944.

 

9. La storia di Elia Montiljo (p. 115)

Nell’ospedale interno della nave, l’unica figlia di Maria e Morris Montiljo, provenienti dalla Yugoslavia, Elia di appena 6 mesi, stava combattendo per la sua vita. Nata in un campo di concentramento, malnutrita nel primo critico mese di vita, la piccola Elia contrasse la polmonite sulla nave.

Ruth Gruber cercava di sostenere la madre che, con le lacrime agli occhi, supplicava di non lasciar morire la bambina. Purtroppo la piccola non ce la fece. Elia si spense lo stesso giorno in cui la nave attraccò a New York, il 3 agosto del 1944.

Un ufficiale della nave tagliò un lenzuolo bianco per farne un sudario. Un falegname costruì una piccolissima bara di legno. Due candele furono poste alle estremità della bara. Tutta la notte ci fu una veglia.

La decisione finale fu quella di non seppellire Elia nel mare, ma di portarla in ogni caso in America per essere seppellita in un cimitero di Oswego.

 

Note

(*) Gruber, Ruth, Haven. The dramatic story of 1000 World War II refugees and how they came to America, Three River Press, New York 2000 (edizione rivista e ampliata. Il libro non è pubblicato in Italia. Tutte le traduzioni sono di Antonio Spinelli).

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