Storia della famiglia Weiss

Storia della famiglia Weiss

 

 

Otto Weiss era un commerciante, figlio di Marco e di Erminia Zollaschan, nato a Vienna il 14 Aprile del 1896. Di lui è conservato il lasciapassare n° 18236 (datato 19/08/1941), che gli permise di recarsi da Lubiana, dov’era nel frattempo giunto, in direzione di Perugia, Vicenza, Pisa e Treviso, nonché di ritornare alla stessa Lubiana.

Con Otto erano presenti sua moglie Frieda (Federica) Schwarz, figlia di Ermano e Katica Hausser, nata a Vienna il 13 Gennaio del 1900, e la figlia Edith Weiss, nata a Vienna il 31 ottobre del 1924. Anche Frieda era in possesso di un lasciapassare, n° 18234 datato 19/08/1941 e valido sei mesi.

 

Le notizie sulla loro permanenza ad Arzignano possono essere ricavate dai documenti dell’Archivio di Vicenza e di Arzignano, mentre per quel che concerne il periodo precedente e posteriore all’internamento è stata fondamentale la testimonianza di Ernie Weiss, nipote di Otto, che ha permesso di ricostruire sia il loro arrivo in Italia sia la fuga verso Bari.

Ernie Weiss [1] è nato a Vienna il 7 maggio del 1931. Il padre e il nonno di Ernie erano i proprietari dell’Eldorado Schuhfabrik a Vienna. Erano degli ebrei benestanti che vivevano a Hietzing, il 13° distretto di Vienna. I genitori di Ernie erano giocatori di tennis, amanti della musica, sciatori e frequentatori delle spiagge di Abbazia. Il padre di Ernie, Roberto, fu arrestato nel suo ufficio e spedito a Dachau. Non appena fu rilasciato, nel novembre del 1938 la famiglia partì da Vienna. Si diressero verso Koprivnica in Croazia dove suo nonno era nato, anche se viveva a Vienna. Entrambi i nonni di Ernie furono uccisi a Jasenovic nel 1941. La madre di Ernie si chiamava Hedy e il fratello Peter, di 7 anni più giovane.

Da Koprivinica andarono a Zagabria e nel 1941 a Lisbona da dove si imbarcarono per Cuba per giungere poi, nel 1946, negli USA.

Mentre Ernie fuggiva verso gli USA con i genitori, altri suoi parenti scelsero strade diverse. Tante Anna, la zia, si unì alle forze di Tito e trascorse l’intera guerra con i partigiani. Suo marito, Pepi, fu mandato a Nisko in Polonia dove fu ucciso mentre tentava di scappare da un treno.

Lo zio Gustav si unì, invece, alla Legione Straniera francese dopo che riuscì a fuggire da Vienna per Parigi; lo zio Fred fuggì da Vienna verso Londra e si inserì nelle fila dell’esercito britannico; la cugina Lisl riuscì a prendere un battello che attraversò il Danubio e arrivò prima a Sulina (Romania) e poi in Palestina. Il suo fidanzato Bruno era già in Palestina e prese parte alla Brigata Ebraica. Gli altri due nonni di Ernie lasciarono Vienna per Zagabria dove furono arrestati dalle SS e da quel momento scomparvero. Il cugino Hans Hacker (Weiss) fuggì verso Zurigo; i suoi genitori e sua sorella furono decapitati a Zagabria dagli ustascia.

Otto Weiss era il fratello del padre di Ernie. Sia Otto sia Frieda sono morti negli USA in età avanzata. Edith ha sposato Arthur Korn. Entrambi sono morti a causa di una malattia, Edith nel 1965, Arthur qualche anno fa. Hanno lasciato due figli, Kathy e Andrew, che ora hanno entrambi più di 50 anni. Andrew si è sposato con Randy, ha avuto tre figli e vive in Massachusetts. Anche Kathy si è sposata e vive nello stesso stato.

Ritornando agli anni delle persecuzioni, è importante seguire il cammino della famiglia Weiss per arrivare ad Arzignano.

Come è risaputo, la Jugoslavia si trovò, nell’aprile del 1941, a subire il piano d’attacco della Germania (noto come Operazione 25) a cui l’Italia si unì. Gli occupanti crearono, sotto la guida di Ante Pavelić, lo Stato Indipendente di Croazia [2] con capitale Zagabria. L’Italia, che era già presente a Zara, si annesse parte della Slovenia e della Dalmazia e la zona della Bocche di Cattaro [3].

Molti ebrei fuggirono dai territori sotto diretto controllo dei nazisti o degli ustascia croati, dirigendosi verso le zone controllate dall’Italia. Spesso gli ebrei trovarono, nella popolazione locale, qualcuno disposto ad aiutarli. Alcuni ebrei attraversarono il fiume Kupa e da lì vennero traghettati da pescatori o marinai nella zona di Fiume.

I tre Weiss lasciarono Koprivnica, in Croazia, presero un treno per Ljubliana, scesero subito prima di raggiungerla e a piedi si diressero verso il confine con il territorio italiano. Come Edith stessa ebbe modo di testimoniare, trovarono una persona con una barca e grazie a lei riuscirono ad attraversare un fiume. Successivamente alcuni uomini slovacchi parlarono con loro e, secondo la ricostruzione di Ernie Weiss, li invitarono a rimanere in una casa per un anno, ben nascosti dai fascisti [4]. In seguito però furono arrestati e portati in Italia.

Quella che segue è la trascrizione di un’intervista, andata in onda il 1° Gennaio del 1951, che un giornalista fece a Edith e a suo marito Arthur Korn per un radio di New York [5]. Dalle parole di Edith emergono altri particolari:

Intervistatore: (…) La sua storia dolorosa si conclude con un bel finale: il suo matrimonio. Dopo una serie di avventure spaventose durante gli anni della Guerra lei arrivò negli Stati Uniti da Vienna attraversando la Jugoslavia e l’Italia. Era con la sua famiglia?

Edith: “Sì. Finché dovemmo affrontare il problema di come attraversare il confine della Jugoslavia per entrare in Italia. Mio padre sentiva che mia madre ed io avremmo avuto più possibilità di superare i controlli delle guardie senza un uomo e così ci precedette.

Intervistatore: Poi lei e sua madre aveste problemi?

Edith: No…. decidemmo di essere molto coraggiose e di attraversare un ponte che conduceva in Italia. Le guardie ci chiesero i documenti ma furono gentili quando noi gli dicemmo che non li avevamo. “Noi non possiamo lasciarvi passare, ma il fiume non è così grande” disse uno di loro. Così trovammo un contadino che aveva una barca e lo pagammo per trasportarci dall’altra parte.

I Weiss non fecero parte dei convogli più numerosi, quelli del novembre 1941, con cui la maggior parte degli ebrei arrivò in Provincia di Vicenza per esservi internata.

Otto arrivò a Vicenza con un foglio di via del 18/02/1942. La Questura lo internò ad Arzignano dove, come tutti gli internati, sottoscrisse, il 25/02/1942, davanti al Podestà, il documento con le regole di comportamento da tenere durante l’internamento.

Gli Archivi conservano poche notizie del periodo di internamento ad Arzignano. Tra i dati che emergono risultano essere rilevanti, da una parte, le condizioni psichiche di Otto che si sottopose a diversi esami medici e fu più volte ricoverato a Vicenza [6] e, dall’altra, l’organizzazione del matrimonio della figlia Edith con Slavko Losic, internato nel campo di Ferramonti di Tarsia (Cosenza).

Frieda fece richiesta al Ministero dell’Interno, tramite il Questore di Vicenza, di far trasferire Slavko ad Arzignano, ma l’8 aprile 1943 le risposero che prima avrebbe dovuto essere celebrato il matrimonio e solo in un secondo momento sarebbe stato possibile pensare ad un eventuale trasferimento di Slavko da Ferramonti.

Lo stesso Slavko, già il 26 febbraio del 1943, chiese di essere trasferito ad Arzignano per sposare Edith. Per questo motivo, il 6 agosto gli venne concesso un permesso di dieci giorni, confermato dalla Questura di Vicenza il giorno 22.

Il 31 agosto 1943 il Podestà di Arzignano scrisse al Questore di Vicenza e al comando dei Carabinieri: “Si comunica che la promessa sposa al nominato in oggetto (Losic Slavko, ndr.), Weiss Edita di Otto ha dichiarato che le pratiche per contrarre matrimonio con il citato Losic sono già state espletate presso il rabbino di Verona”.

 

Il 4 settembre del 1943, venne concesso ai coniugi Weiss di ottenere i propri passaporti al fine di raggiungere Verona. Otto, in data 7 settembre, dovette firmare una ricevuta per il ritiro dei documenti.

Il documento recita: “Non appena il matrimonio sarà celebrato, il sottoscritto dichiara di ritornare a questo Ufficio i predetti passaporti.” Ma il giorno dopo arrivò l’armistizio e gli eventi precipitarono: i Weiss non persero tempo e fuggirono verso sud, come molti degli ebrei internati in Provincia di Vicenza.

 

Lasciarono Arzignano presumibilmente intorno alla metà di settembre. Riuscirono a prendere un treno e poi, su una piccola nave, attraverso l’Adriatico, raggiunsero Bari. I tedeschi erano appena andati via, mentre inglesi e americani cominciavano ad organizzare i campi per i profughi. I Weiss rimasero lì per un po’ ed Edith trovò lavoro come traduttrice. Era molto portata per le lingue.

Successivamente la storia di Otto, Frieda ed Edith diventa un tutt’uno con quella della Henry Gibbins e del suo viaggio verso gli Stati Uniti.

Slavko, il fidanzato di Edith, secondo lo Yad Vashem, si trovava anch’egli a Bari. Probabilmente, con la dichiarazione dell’armistizio, Slavko tornò a Ferramonti e da lì poi raggiunse Edith a Bari, ma non salì mai sulla nave in partenza da Napoli. Edith e i suoi genitori andarono a New York. Lei frequentò un collegio dove incontrò Arthur Korn che, come già detto, divenne in seguito suo marito [7].

La stessa Edith Weiss scrisse un articolo per un giornale locale di Oswego, mentre era ancora nel campo di Fort Ontario [8]. Si tratta di un documento essenziale sia per la ricostruzione della fuga verso Bari, sia per il racconto della vita nel forte e delle speranze dei rifugiati.

Era il 1943 e non avrei mai immaginato che questo sarebbe stato l’inizio del mio viaggio in America. La nostra destinazione era il Sud Italia, ma il nostro solo pensiero era: ‘Come potevamo raggiungerlo?’

Il treno si fermò in una cittadina sulla costa adriatica e lentamente, senza più speranza, girovagammo verso la spiaggia. Raggiungendola, vedemmo un gruppo di ragazzi che lavoravano su una piccola motobarca. Capimmo che avevano il nostro stesso obiettivo: il Sud. Avevano trovato questa barca abbandonata nel porto e avevano appena finito di trasportare sulla barca il motore di un vecchio aeroplano tedesco andato distrutto. Era un lavoro duro e pericoloso, ma stavano per finirlo ed erano prossimi alla partenza.

Una trentina di noi rifugiati affollati su una barca costruita per sette persone. Nessuno si lamentava della mancanza di spazio. La cooperazione è la cosa più importante nei momenti di pericolo.

Non avevamo una bussola, né equipaggio, né mappe. Solo speranza e fede. Decidemmo così di andare il più lontano possibile con la benzina che avevamo.

Seguirono due notti e un giorno terribili. Il timone si ruppe molte volte, l’acqua entrò nella barca, gli aerei tedeschi volavano su di noi. Alcuni bambini erano malati, ma noi dovevamo proseguire. La mattina del secondo giorno ci comunicarono la notizia che temevamo: non avevamo più benzina. Dovemmo sbarcare, ma dove? Chi ci avrebbe aspettato? I tedeschi o gli alleati? Seguirono minuti di tensione mentre la piccola barca si avvicinava alla spiaggia. Poi vedemmo navi tedesche attraccate nel porto. Ma non c’era scelta per noi: dovevamo toccare terra.

Sbarcammo. La città sembrava deserta. Ma noi pensavamo di conoscere il nostro destino: un campo di concentramento tedesco da qualche parte in Polonia. Ci sembrò fosse passato tanto tempo prima che vedessimo un poliziotto italiano venire verso il nostro gruppo spaventato . Ci guardò così intensamente per pochi momenti, come se volesse essere sicuro di chi fossimo e poi disse: “Benvenuti a Bari, i tedeschi sono partiti tre ore fa”.

In seguito raggiungemmo la città (Napoli, ndr.) dalla quale più avanti saremmo salpati per l’America. Questa volta non si trattava di una motobarca che ci avrebbe condotto attraverso l’oceano, ma di una grande nave militare (Henry Gibbins, ndr.).

Una mattina di agosto, i nostri occhi pieni di speranza scoprirono la Statua della Libertà, che si erigeva come simbolo per i poveri e i perseguitati.

Quattordici mesi trascorsero da allora. Quattordici mesi ad Oswego, New York, a Fort Ontario che una volta era un campo dell’esercito. Il nostro piccolo gruppo di 982 persone, provenienti da diverse parti del mondo aveva formato qui una comunità, che come dappertutto aveva le sue gioie e i suoi dolori.

Camminando attraverso il campo avreste potuto sentire tante lingue diverse e i nostri bambini parlare italiano, tedesco e inglese, tutto mischiato, con il risultato di uno strano tipo di esperanto. Avreste potuto vedere le baracche bianche; il verde campo di manovre dove si praticavano sport come il baseball, la pallavolo e il football; gli uffici amministrativi, l’ospedale, il cinema, la mensa e le sale ricreative.

Se foste arrivati alle otto di mattina avreste incontrato i più piccoli che correvano verso le scuole di Oswego. Dato che ero una di loro, so come ci si sentiva quando si entrava nelle scuole americane per la prima volta. La maggior parte di noi non era andato a scuola negli ultimi sei anni, e le nostre scuole europee erano molto diverse da quelle americane. Non potevamo scegliere le nostre materie, cambiare insegnanti e classi ogni periodo.

Noi fissavamo le allegre ragazze americane con i loro maglioni sgualciti e con i calzini abbinati, i ragazzi che indossavano le magliette fuori dai pantaloni arrotolati.

Avremmo potuto mai imparare a diventare come loro – felici e giovani e gioiosi? Se avessi potuto cancellare sei anni dalla mia memoria, la trasformazione sarebbe stata più facile. Prima ero una bambina a cui piaceva giocare. Passavo molto tempo sciando, pattinando, andando alle feste. Ma sfortunatamente quegli anni non potevamo semplicemente cancellarli. Per noi, i giovani rifugiati, i giorni felici della nostra fanciullezza erano svaniti.

Li ricordavamo con difficoltà, a causa di tutti gli orrori che ne erano seguiti. Questa è un’altra conseguenza dei crimini commessi dai nazisti. Uccidere i ricordi felici del passato: non è anche questo un crimine come togliere una vita umana? Penso di sì.

 

 

 

Quando prego per un futuro migliore, prego anche che semmai avrò un bambino lui possa vivere spensierato come questi americani le cui menti non sono state tormentate da sei anni di paura e oppressione. Ma i miei giorni nella scuola superiore di Oswego furono i più felici da quando lasciai Vienna, la mia città natale. E quando lo scorso giugno ho attraversato l’auditorium della scuola con il cappello e la toga bianche, reggendo forte in mano il mio diploma, mi sentivo orgogliosa, felice e grata perché avevo avuto la possibilità di frequentare una scuola americana [9], imparare qualcosa sulla vita e le tradizioni americane ed essermi diplomata con 160 ragazzi e ragazze americani.

 

Tornando a parlare del Forte, alle 12 ci avreste potuto vedere camminare verso la mensa. La posta sarebbe già arrivata e le notizie, locali così come quelle estere, sarebbero state discusse in modo animato. Alcuni riceverebbero lettere dai parenti e dagli amici in Europa che pensavano fossero morti, e potreste immaginare la loro felicità; altri ancora verrebbero a sapere che un altro membro della propria famiglia è scomparso.

Qualunque fossero le notizie, avreste potuto trovare sempre uno o più gruppi discutere della questione importante: ‘Quando lasceremo il rifugio?’ Qualcuno aveva sentito ‘da una fonte molto sicura’ che ci sarebbero voluti soltanto trenta giorni, altri ancora che saremmo stati lì fino alla prossima estate. Posso dire confidenzialmente che nessuno sapeva quando saremmo andato via. È possibile, almeno spero, che quando leggerete il mio articolo, il “Fort Ontario Refugee Shelter” sarà solo storia. Ci sono giorni in cui mi sento abbastanza felice nella mia baracca, mentre leggo, faccio i compiti o scrivo lettere, ma ci sono anche giorni in cui mi domando se ma avrò una casa mia con cose che mi apparterranno. Una casa come quella dei miei compagni di scuola americani, come l’unica in cui io sono stata e in cui c’erano una radio, un pianoforte, una cucina bianca accogliente con dei piccoli oggetti, piccoli modellini o libri appoggiati sui mobili. Ma forse, nel momento in cui state leggendo…chi lo sa? Qui nel campo, mentre aspettiamo, usciamo per le passeggiate serali, o per andare al cinema o per fare i balli di piazza. Sì, potreste trovare strano che in un campo di europei i balli di piazza siano diventati popolari sia tra i giovani che tra i vecchi. Ridereste vedendo i nostri padri e le nostre madri ballare un Virginia Reel. Ma vogliono impararlo, vogliono fare qualcosa che li faccia sentire più vicini al paese in cui ora vivono. Seguono anche corsi di cucito, di bellezza, arti e mestieri, carpenteria, e altre cose utili, ma ciò che più ha aiutato la maggior parte di noi è stato l corso d’inglese. Così, un giorno passa come un altro e ogni giorno speriamo di essere più vicini all’America, a questa terra di libertà e di giustizia. Quattordici mesi fa eravamo europei. Oggi il nostro solo desiderio è essere uno di voi. Il mio è di essere una normale ragazza americana, felice, giovane e orgogliosa di questo paese”.

 

Note

[1] Nella foto Ernie con suo nonno al Prater di Vienna. Foto appartenente a Ernie Weiss. La foto insieme a quelle di Otto e di Frieda, nella pagina precedente, sono state concesse da Ernie Weiss.

[2] Lo Stato comprendeva oltre alla Croazia, la Bosnia-Erzegovina e altre parti della Dalmazia tra cui la città di Dubrovnik.

[3] L’Italia si annesse: una parte della fascia costiera della, alcune isole a sud-est di Fiume (Rijeka) con le città di Susak (Borgonovo) e Bakar (Buccari); la metà meridionale della Slovenia con Ljubliana; la maggior parte della costa dalmata tra Zara (Zadar) e Split (Spalato) ed alcune isole di fronte alla costa stessa; le Bocche del Cattaro (Kotor – ora Montenegro).

[4] La madre di Ernie pensava che fossero stati nascosti in un convento, mentre Ernie pensa che siano stati nascosti presso una famiglia. In realtà non è ancora possibile dire con certezza cosa accadde in quei mesi alla famiglia Weiss e come arrivarono ad Arzignano. Di sicuro sappiamo che avevano un lasciapassare dell’Italia valido dall’agosto del 1941 al febbraio del 1942, che è infatti il mese in cui vennero portati ad Arzignano. Si potrebbe pensare che i Weiss sfruttarono il lasciapassare e che, al momento della scadenza della validità, tornarono in Jugoslavia. Vista la situazione, ripartirono subito per l’Italia tentando la strada della clandestinità.

[5] Traduzione dell’autore. Ernie Weiss ha fornito il documento originale in inglese dell’intervista.

[6] Archivio Comunale di Arzignano, Ebrei internati, fascicoli personali di Otto Weiss e di Frieda Schwarz.

[7] Losic Slavko, figlio di Isidoro e di Bohm Berta, nato a Dachow (Cecoslovacchia) il 13/07/1919. Nella foto  Edith ed Arthur nel giorno del loro matrimonio (1950). Sulla destra la mamma e il fratello di Ernie, Hedy e Peter.

[8] Traduzione dall’inglese dell’autore. Il documento originale è stato concesso da Ernie Weiss.

[9] Le tre foto sono state concesse da Ernie Weiss: in ordine Edith in classe; Edith sulla scalinata in mezzo ai suoi compagni di scuola – il primo da sinistra è Ivo Lederer, figlio di Otto Lederer internato in Provincia di Vicenza; Edith il giorno del diploma.

 

Fonti

  • Fonti archivistiche
  • Archivio di Stato di Roma
  • Archivio di Stato di Vicenza
  • Archivio Comunale di Arzignano
  • Documenti appartenenti ad Ernie Weiss

Sitografia

www.dalrifugioallinganno.it

www.oswegohven.com

www.presidency.ucsb.edu/ws/index.php?pid=16519

www.fatherryan.org/holocaust/oswego

www.state.gov/s/d/rm/rls/perfrpt/2005/html/56380.htm

www.kidsnet.org/cbs/haven/curriculum/documents.html

www.ushmm.org

http://history1900s.about.com/library/photos/blyfdr91.htm

www.ailf.org/exhibits/jewish2004

www.geocities.com/lakeforts/Fort_Ontario.html

www.fortontario.com

http://nysparks.state.ny.us/sites/info.asp?siteID=9

www.feri.org/common/photos/photo_detail.cfm?topicID=62&ClientID=11005

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