Orazione ufficiale per i 7 martiri – Valdagno, 9 luglio 2023

Orazione ufficiale per i 7 martiri

Valdagno, 9 luglio 2023

 

Vice-sindaca, autorità civili e religiose, rappresentanti delle associazioni partigiane, combattentistiche, d’arma e dei reduci, familiari delle vittime, cittadine e cittadini di Valdagno, ragazze e ragazzi presenti, a tutte e tutti voi il mio saluto e un ringraziamento sincero per l’invito che mi concede l’onore di mettermi al servizio della storia e della memoria.

Vorrei sviluppare con voi alcune riflessioni strettamente connesse con il 79° anniversario dell’uccisione dei sette martiri da parte dei nazifascisti. Permettetemi di partire proprio dal concetto di martirio. Se ci pensiamo, diversi furono gli episodi, e le relative vittime, che hanno poi condotto all’uso di questa parola. Per la sola provincia di Vicenza, oltre ai 7 martiri che coinvolgono la città di Valdagno, possiamo fare riferimento ai 10 martiri uccisi a Vicenza l’11 novembre 1944 in località ponte dei marmi (nei pressi del quale è oggi presente viale X Martiri) o ai 7 martiri di Grancona, assassinati l’8 giugno 1944. Né possiamo dimenticare che alcune note brigate di partigiani vicentini portano nel loro nome il ricordo dei martirii subiti: la stessa Martiri di Grancona della Divisione Vicenza e della Garemi che annovera anche la Martiri della Val Leogra e la Martiri della Libertà; la brigata Martiri di Granezza della divisione Monte Ortigara.

Potremmo continuare a lungo. Si tratta di episodi e riferimenti diversi tra loro, ma in cui troviamo da una parte il filo conduttore dell’ideologia e della pratica nazifascista (l’inganno, la violenza, la menzogna) e dall’altra, appunto, il martirio. Parola antica che nella sua etimologia rimanda alla testimonianza. Un concetto, come sappiamo, nato nell’ambito del cristianesimo, che ha assunto significati più ampi e che ci porta a un primo dato: i martiri – i 7 martiri – sono vittime e nello stesso tempo testimoni. Testimoni di un’idea, di principi, di convinzioni etiche e politiche che non possono essere ritrattate. Non era infatti possibile abiurare la libertà e la democrazia, rinnegare una scelta di futuro, rigettare la visione di un’Italia che non avrebbe più dovuto avere paura e in cui uguaglianza, solidarietà, inviolabilità dei diritti avrebbero dato un altro senso al vivere comune.

E non dovremmo farlo nemmeno noi oggi.

Interessante notare che in architettura il martyrion o martyrium è una chiesa tipica dell’arte bizantina, costruita sulla tomba di un martire o sul luogo in cui era avvenuta la sua morte e dedicata al suo culto. Abbiamo noi una “casa” per i martiri del nazifascismo? È nelle lapidi, nei cippi, nei monumenti, nelle pietre di inciampo, nei nomi delle vie, là dove subirono torture, là (qui) dove furono imprigionati, là dove furono deportati, là “dove caddero”. Spesso dimenticati, abbandonati, ignorati, spesso negati, questi luoghi rappresentano il legame che resta tra quelle storie e ciò che noi siamo oggi. Un legame che per nessuna ragione possiamo far cadere nell’oblio perché ci mette in relazione profonda con il nostro essere al mondo, con il nostro modo di stare al mondo. I 7 martiri, i loro volti, i luoghi che li àncorano a noi, ci parlano e ci raccontano e ci ricordano continuamente e instancabilmente, se ci poniamo in ascolto, che cosa sono gli orrori della guerra, che cos’è l’odio proprio di un regime totalitario, cosa vuol dire trasformare l’altro (ogni altro – il diverso, lo straniero, chi ha idee divergenti) in nemico. Come ci rammentava Primo Levi, “quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano”.

Se ci soffermiamo ancora un po’ sul concetto di martirio, dobbiamo anche dire che il suo uso negli anni ha avuto varie declinazioni. Lo vediamo proprio nei nomi delle strade. Il rapporto osmotico tra storia e toponomastica è ineludibile e ha come effetto un continuo aggiornamento dei nomi delle vie. Così i capoluoghi veneti si sono riempiti di altri riferimenti. L’effetto, nel tentativo di creare una sorta di equilibrio delle vittime, è quello di una città come Padova – città in cui vivo – in cui via Martiri della libertà, ponte Quattro Martiri e via Sette Martiri (intitolazione ricorrente se pensiamo a quella di Valdagno e ai sette martiri di Venezia) condividono il riferimento al “martirio” con i Martiri delle foibe, via Martiri d’Ungheria e via Martiri giuliani e dalmati, senza dimenticare le intitolazioni ai caduti delle guerre della prima metà del Novecento e a qualche “martire” del fascismo. Nelle lotte memoriali corriamo il rischio di ingenerare confusione, flussi magmatici di informazione, di creare una cortina fumogena per nascondere e vanificare la storia in quella che Giovanni De Luna, ne La repubblica del dolore, ha chiamato la “competizione delle vittime”. Nella “democrazia del dolore” la “storia scompare e sulla scena restano solo vittime e carnefici”. Dobbiamo quindi evitare che nel discorso pubblico o nelle scuole, la vittima alla fine sia la storia e con essa la memoria. Mai la commemorazione deve essere vuota routine, mai riempire retoricamente i tempi della cerimonia, mai lasciare che la proliferazione dei dettagli nella nostra vita quotidiana cancelli la storia, annulli prima di tutto in noi il senso del cammino storico che abbiamo percorso fin qui.

Primo Levi si chiedeva: “[…] perché dobbiamo ricordare e che cosa dobbiamo ricordare?”. Una domanda affatto scontata a cui rispose: “Bisogna ricordare il male nelle sue estreme efferatezze e conoscerlo bene, anche quando si presenta in forme apparentemente innocue.” Conoscere e ri-conoscere il male, capire quali sono i meccanismi sottesi a determinate ideologie, a certe scelte politiche, ai discorsi d’odio, anche quando si presentano “in forme apparentemente innocue”. La storia e il metodo storico sono la strada che ci porta a tale conoscenza. Perché la memoria da sola non basta. Lo sottolinea Todorov, proprio a proposito dell’opera di Levi, affermando: “La semplice memoria del male non è […] sufficiente a prevenirne il ritorno; bisogna che il richiamo del male sia sempre accompagnato da un’interpretazione e da istruzioni per l’uso”.

Cosa ricordare, dunque? Prima di tutto i nomi. Contro il processo di spersonalizzazione voluto dal nazi-fascismo, riconsegniamo così dignità ai perseguitati a partire dal pronunciamento del loro nome e dal racconto delle loro storie.

  • Ferruccio Baù, nato a Villaverla (VI) nel 1908, residente a Valdagno, gestiva un negozio di alimentari in via Manin. Antifascista, lo ricordiamo, anzi lo vediamo davanti a noi in quel 27 luglio 1943 mentre butta dal balcone del Comune le fotografie di Mussolini. Arrestato dopo l’8 settembre e portato nel carcere di San Biagio, lo ritroviamo nelle fila della brigata Stella della divisione Garemi.
  • Alfeo Guadagnin, nato a Lancenigo di Villorba (TV) nel 1899, residente a Bassano del Grappa, noleggiatore d’auto. Socialista, amico di Baù, organizzatore della Resistenza nel Bassanese, partigiano della brigata Stella della divisione Garemi. Arrestato, torturato, imprigionato a San Biagio, rilasciato un mese prima della morte.

Arrestati dai fascisti il 1° luglio 1944 nella zona del Foro Boario. Ferruccio aveva 36 anni, Alfeo 45.

 

  • Virgilio Cenzi, nato a Mestrino (PD) nel 1896, residente a Valdagno, falegname alla Marzotto. Comunista. Con Ines Zordan aveva avuto un figlio. Collaborava con Pietro Tovo tenendo i contatti con i partigiani della Stella. Lui stesso fu riconosciuto membro della brigata Stella.

Arrestato dai fascisti il 2 luglio 1944 in piazza del Municipio. Aveva 48 anni.

 

  • Giovanni Pasquale Zordan, nato a Valdagno nel 1908, residente a Valdagno, operaio alla Marzotto. Comunista. Vedovo con un figlio, era partigiano della brigata Stella.
  • Francesco Rilievo, nato a Valdagno nel 1919, residente a Valdagno, operaio alla Marzotto. Quel giorno aveva accompagnato Giovanni dal barbiere. Dopo la guerra fu segnalato come appartenente alla brigata Stella.

Arrestati dai fascisti il 2 luglio 1944 in piazza Roma. Giovanni aveva 36 anni, Francesco 25.

 

  • Marino Ceccon, nato a Brendola (VI) nel 1912, residente a Maglio di Sopra, operaio alla Marzotto. Comunista, fu partigiano della brigata Stella.
  • Raffaele Preto. Calzolaio, teneva i collegamenti con i partigiani e sosteneva il movimento armato.

I due incontrarono per caso …

  • Antonio Bietolini, nato a Perugia nel 1900. Operaio meccanico, dirigente comunista, arrestato più volte tra il 1929 e il 1934, nel periodo della lotta di liberazione viveva in clandestinità sotto la falsa identità di Bruno Morassuti. Già ispettore delle brigate Garibaldi, aveva avuto il compito di dirigere la federazione vicentina del Pci. Come sappiamo, Antonio era lì per incontrare il comandante Marozin.

Arrestati dai fascisti il 2 luglio 1944 all’osteria “Al pugnale insanguinato” in via Festari. Marino aveva 32 anni, Raffaele 24, Antonio 44.

In seguito Raffaele fuggì permettendoci poi di conoscere i dettagli di quanto accaduto, tramite le ottime ricostruzione di Maurizio Dal Lago.

 

I nomi ci riportano a fatti, situazioni, luoghi. In questa breve ricostruzione i luoghi risaltano come elementi centrali e ci ricordano che siamo circondati dalla storia e che i nostri passi la attraversano: la ghisa, la scuola elementare, il poligono di tiro, piazza Municipio, piazza Roma, via Festari e tutti i luoghi in cui si svolsero le vicende, comprese le sedi del presidio fascista e di quello tedesco. E poi ancora Castelvecchio, Marana, le 26 contrade colpite nei giorni successivi, ogni strada coinvolta dal terrore nazista. Luoghi della memoria che hanno molto da raccontarci ma che spesso restano invisibili sullo sfondo del nostro vissuto quotidiano. Luoghi contaminati che portano i segni di quanto accaduto, luoghi di storia ma anche luoghi di futuro.

Aveva sicuramente ragione Piero Calamandrei quando si rivolse ai giovani milanesi nel lontano 1955 con un discorso che lontano in verità non lo è affatto perché è ancora vivo e ci parla con la potenza e la chiarezza che a volta mancano nei discorsi che sentiamo e facciamo.

Le parole di Calamandrei continuano ad indicarci i luoghi dove è nata la Costituzione, gli stessi dove si è combattuto, dove hanno sperato e creduto e dove sono caduti i sette martiri. Ma Calamandrei ci ricorda anche, subito prima del noto brano citato anche dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel corso delle celebrazioni dello scorso 25 aprile al teatro Toselli di Cuneo, che accanto a nomi ed eventi conosciuti, la Resistenza e la Costituzione, che ne è il frutto, si fondano su quelli che Calamandrei chiama “umili nomi, voci recenti”. E aggiunge: “Quanto sangue e quanto dolore per arrivare a questa costituzione! Dietro a ogni articolo di questa costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi, caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, [qui a Valdagno] che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta”.

Se ci pensiamo bene, ogni parola di Calamandrei, così come del Presidente della Repubblica, ci porta ad una questione cardinale: la scelta.

Da una parte Narciso Grandis, Florindo Castagna, Aldo Ponza, Adriano Visonà, membri del gruppo fascista che, in borghese, effettuò gli arresti. Dalla stessa parte c’è quindi la IV compagnia “Antonio Turcato” di Valdagno della 22° Brigata nera con il comandante Emilio Tomasi. Dalla stessa parte ci sono il comandante maggiore Ludwig Diebold e il capitano Sackel e il capitano Karl Kurz e il tenente Joseph Stey (comandante del plotone di esecuzione). Da una parte c’è una scelta, per ognuno figlia di un ragionamento, di una situazione, di un sentire.

Dall’altra parte ci sono i sette martiri, le partigiane e i partigiani, i tanti civili che hanno appoggiato la lotta di liberazione. Dall’altra parte c’è una scelta, per ognuno figlia di un ragionamento, di una situazione, di un sentire.

Nella storia non è tutto così netto e delimitabile. Quello che qui ci interessa è riflettere sulle scelte individuali e, non nascondiamolo, sui ripetuti tentativi di porre ogni cosa sullo stesso piano, di raggiungere la pacificazione attraverso la parificazione. Una volta di più, la spiegazione della differenza la affidiamo alle note parole di Italo Calvino che ne Il Sentiero dei nidi di ragno scrisse:

Ma allora c’è la storia. C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra.
Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi. Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali.
Una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni […]. Io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro sé stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo.

La differenza sta nel modo di vedere il mondo, nella visione dei rapporti umani e del rapporto tra gli Stati. Vengono in mente le riflessioni di Vasilij Grossman, ora raccolte in “Ucraina senza ebrei”:

Nell’epoca feroce e tremenda in cui è toccato in sorte di vivere su questa terra alla nostra generazione, però, io non credo si possa essere indulgenti, indifferenti e superficiali quanto a ciò che si richiede a sé stessi e agli altri in ambito morale. In un’epoca in cui la vita dei singoli individui e di popoli interi non vale più nulla, in cui uccisioni e torture sono la normalità per gli Stati fascisti, in cui un valore come la libertà personale finisce sotto le suole del dogma tedesco-fascista, in quest’epoca come non mai bisogna pretendere una purezza e un’intransigenza morale altissime, inarrivabili, sia in relazione alla vita personale di ciascuno di noi sia a quella degli Stati.

Perché? – mi chiederanno. Ma perché vivere così non si può più, perché non solo l’Europa, ma l’umanità intera è sull’orlo del baratro, perché distese enormi sono già diventate deserto e migliaia di splendide città sono state fatte saltare in aria e bruciate. Perché milioni di persone già vivono come bestie in fosse e rifugi scavati nel terreno, rigettate indietro di decine di secoli nella notte dei tempi da un cataclisma mondiale; perché l’imbarbarimento generalizzato, la miseria, varie pesti ed epidemie bussano a ogni nostra porta e finestra; […].

Questa forza amorale che tutto incenerisce è arrivata dalla Germania nazionalsocialista. È nata dall’eccezionalismo [germanico], dalla profonda convinzione dei tedeschi […] di essere il popolo eletto e che la loro felicità, la loro pace e sicurezza siano le uniche cose sacre sulla terra. È, questa, l’ideologia dell’eccezionalismo e del disprezzo per gli altri popoli, dell’indifferenza per le sofferenze altrui e del sentimentalismo esasperato nei confronti dei propri simili. E l’idea sciovinista cullata e alimentata per decenni dal convincimento che si possa amare il proprio popolo solo se si disprezza il resto dell’umanità; è la certezza sconfinata della propria insindacabile egemonia sul mondo, del fatto che Dio ha creato cielo, sole, aria, mare, fiori e campi solo per i tedeschi; è il voler credere che, su questa terra, la vita degli altri popoli dipenda solo da quanto essi possano risultare utili al popolo tedesco. La consapevolezza di un tale eccezionalismo non sonnecchia soltanto nell’animo del popolo tedesco. È piuttosto il flagello dell’umanità di oggi e non condurrà di certo alla gloria e al progresso dei popoli”.

Nel contesto di queste linee di pensiero, noi capiamo, sappiamo che le rappresaglie nazi-fasciste come strumento per impaurire, piegare, uccidere, annichilire un intero territorio costituivano la normalità, erano figlie di direttive messe alla prova nell’est Europa ed estese al territorio italiano. Sappiamo quindi quali sono i motivi che portarono alla morte dei sette martiri, ai successivi rastrellamenti, ai civili assassinati, comprese donne e bambini, alle contrade bruciate. Lo sanno i veneti che subirono 703 episodi identificati come stragi nazifasciste, di cui 186 in provincia di Vicenza, con 2317 vittime complessive. Conosciamo le storie di dolore legate a ciascuno di questi episodi, così come il difficile lavoro di ricucitura delle memorie contrapposte presenti in alcuni territori.

Senza entrare nei singoli casi, che comunque meritano attenzione, rispetto e studio (non certo strumentalizzazione, propaganda o uso politico), in generale la ricostruzione storica ci consente di dire che per lo più i nazisti non avevano bisogno di sollecitazioni, di provocazioni, di motivazioni esterne alla logica di controllo, di comando e di sterminio.

C’è un’altra questione importante al centro della vicenda dei sette martiri. Ogni volta che, a gruppi, i sette martiri furono fucilati, i tedeschi ne constatavano la loro morte e dichiaravano: “Giustizia è stata fatta”. Si potrebbe dissertare a lungo su cosa sia la giustizia, su come dovrebbe operare, su cosa ci aspettiamo da un atto di giustizia. Di una cosa siamo pienamente consapevoli: a Valdagno, come in molte altre parti d’Italia, “giustizia” è stata solo una parola di anelito persa nel tempo. E dove non c’è giustizia, dove non c’è riparazione, dove non c’è riconoscimento, dove non c’è ascolto, quando la giustizia viene usata come arma politica o quando è tale da sottrarre diritti a qualcuno, il rischio è di cadere nel rancore, nell’odio, nella volontà di rivalsa o di vendetta.

Né si può rispondere con l’indifferenza, quella stessa indifferenza che, come ci ricorda la senatrice a vita Liliana Segre, “porta alla violenza, come furono violenti non solo i nazisti, ma anche i fascisti che urlavano e ci insultavano, magari nostri vicini di casa”. In un’altra occasione Liliana Segre ha aggiunto: “L’indifferenza racchiude la chiave per comprendere la ragione del male, perché quando credi che una cosa non ti tocchi, non ti riguardi, allora non c’è limite all’orrore. L’indifferente è complice”. Quanti esempi potremmo citare anche a proposito del mondo che ci circonda.

Ciò che resta alla fine di queste considerazioni è una domanda dirimente: Qual è il nostro compito?

Affido la risposta alle pagine di diario che porto sempre con me. Sono state scritte da Etty Hillesum, uccisa a 29 anni ad Auschwitz.

“19 febbraio 1942, giovedì pomeriggio, le due…

Di nuovo qualcuno è stato torturato a morte: quel dolce ragazzo della libreria Cultura… Jan chiedeva con amarezza: Cosa spinge l’essere umano a distruggere gli altri? E io: gli uomini, dici – ma ricordati che sei un essere umano anche tu. (…) Il marciume che c’è negli altri c’è anche in noi (….) e non vedo nessun’altra soluzione, veramente non ne vedo nessun’altra, che quella di raccoglierci in noi stessi e di strappare via il nostro marciume. Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi. È l’unica lezione di questa guerra: dobbiamo cercare in noi stessi, non altrove. (…). Un’altra cosa ancora dopo quella mattina: la mia consapevolezza di non essere capace di odiare gli uomini malgrado il dolore e l’ingiustizia che ci sono al mondo, la coscienza che tutti questi orrori non sono come un pericolo misterioso e lontano al di fuori di noi, ma che si trovano vicinissimi e nascono dentro di noi: e perciò sono più familiari e assai meno terrificanti. Quel che fa paura è il fatto che certi sistemi possono crescere al punto da superare gli uomini e da tenerli stretti in una morsa diabolica, gli autori come le vittime”.

E il 3 luglio 1943, un anno prima della morte dei 7 martiri di Valdagno e due anni prima del loro funerale, Etty rifletteva sulla sua condizione che può assurgere ad una vera e propria visione della vita:

“Volevo dire solo questo: la miseria che c’è qui è veramente terribile – eppure, alla sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare lungo il filo spinato, e allora dal mio cuore s’innalza sempre una voce – non ci posso far niente, è così, è di una forza elementare -, e questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo. A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere. E se sopravviveremo intatti a questo tempo, corpo e anima ma soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo anche il diritto di dire la nostra parola a guerra finita”.

Nel costruire questo mondo completamente nuovo, lo stesso che sognavano i ragazzi entrati nella Resistenza, lo stesso che i sette martiri avranno conservato fino all’ultimo nei loro occhi, non dobbiamo però mai pensare che tutto sia finito. Ce lo insegna ancora Primo Levi che nelle ultime pagine de I sommersi e i salvati ci ricorda con la limpidezza e la profondità che lo contraddistinguono:

“È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire. Può accadere, e dappertutto. Non intendo né posso dire che avverrà; […], è poco probabile che si verifichino di nuovo, simultaneamente, tutti i fattori che hanno scatenato la follia nazista, ma si profilano alcuni segni precursori. La violenza «utile» o «inutile», è sotto i nostri occhi: serpeggia, in episodi saltuari e privati, o come illegalità di stato […]. Attende solo il nuovo istrione (non mancano i candidati) che la organizzi, la legalizzi, la dichiari necessaria e dovuta e infetti il mondo. Pochi paesi possono essere garantiti immuni da una futura marea di violenza, generata da intolleranza, da libidine di potere, da ragioni economiche, da fanatismo religioso o politico, da attriti razziali. Occorre quindi affinare i nostri sensi, diffidare dai profeti, dagli incantatori, da quelli che dicono e scrivono «belle parole» non sostenute da buone ragioni”.

È interessante che Levi parli di ciò che può ritornare e di “infezione”. È la stessa immagine che ricaviamo leggendo La peste di Albert Camus.

“Ascoltando, infatti, i gridi d’allegria che salivano dalla città, Rieux ricordava che quell’allegria era sempre minacciata: lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce e che forse verrebbe un giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice”.

Ecco perché i sette martiri sono ancora oggi fissi nei nostri ricordi: perché ci parlano della violenza, ci parlano dell’odio, ci parlano della giustizia mancata, ci parlano della peste passata e di quella che può risvegliarsi, ma nel contempo ci parlano di un sogno, ci sussurrano le loro speranze, ci indicano la strada che ha condotto verso la libertà e la Costituzione.

Percorriamola fino in fondo quella strada.

Finalmente il 28 aprile 1945, dopo gli ultimi scontri e l’uscita delle colonne di tedeschi da Valdagno (che sarebbe poi stata insignita della medaglia d’argento al valor militare per la Resistenza) e con l’entrata a Vicenza della Quinta armata americana, fummo liberi.

Riusciamo a sentire ogni giorno il vento della libertà di quel giorno?

Dalla risposta che ognuno di noi dà a questa domanda dipende il futuro di tutti.

Buon cammino.

Viva la Resistenza! Viva la Costituzione! Viva l’Italia!

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