Il testimone e il luogo …

Il testimone e il luogo nella didattica della shoah 

di Alessandra Chiappano

(…). Per quel che concerne la didattica della shoah, vorrei soffermarmi su uno dei temi che più mi stanno a cuore, riprendendo anche alcune delle suggestioni di chi mi ha preceduto, ossia l’uso del testimone e la visita ai luoghi della memoria.

In via del tutto preliminare va ricordato che la storia della shoah, della deportazione va collocata all’interno del curriculum di storia contemporanea, che fa parte dei programmi della scuola superiore fin dal 1960. In realtà, le disposizioni ministeriali rimasero largamente disattese, come attesta un recente studio sull’insegnamento della storia contemporanea in Europa; nel capitolo dedicato all’Italia si nota come nel nostro paese si sia sempre registrata una difficoltà da parte degli insegnanti ad affrontare la contemporaneità: occorreva affrontare il nodo della “guerra civile”, della divisione dell’Italia e questo era estremamente difficile in classi dove coesistevano memorie così diverse e divise [1].

Come afferma Marco Silvani:

«Di fronte a queste difficoltà e all’imbarazzo creato dalla presenza di queste divisioni nella società, gli insegnanti hanno scelto la strategia del silenzio, o quella dell’ interpretazione del fascismo come di qualcosa di avulso dalla storia d’Italia» [2].

È stato soltanto con il decreto Berlinguer, del 1996, che i docenti di storia hanno dovuto confrontarsi con la storia contemporanea e procedere ad una riflessione di più ampio respiro sulla didattica della storia. Questo ha comportato l’acquisizione di una serie di strategie innovative: la didattica per progetti applicata anche alla storia e soprattutto il laboratorio di storia [3]. È in questo preciso contesto che, a partire soprattutto dalla fine degli anni Novanta, inizia a concretizzarsi l’attenzione sulle leggi razziali, sui rapporti tra il fascismo e la deportazione, sulla storia dei campi di concentramento e di sterminio [4]: le scuole, gli insegnanti, gli studenti diventano i principali attori di un processo di innovazione profondo, che porta allo sviluppo di una miriade di progetti che spesso nascono in concomitanza con la sistemazione degli archivi scolastici [5] e si concludono con i viaggi nei luoghi della memoria. (…).

Dalla fine degli anni Novanta e in misura ancora più rilevante a partire dal 2001, con l’entrata in vigore della legge istitutiva della Giornata della memoria, le attività legate al tema della shoah e della deportazione sono cresciute in maniera esponenziale e questo è sicuramente un bene, ma esiste, ed è sempre più concreto, il rischio che si parli di queste tematiche soltanto nell’ambito circoscritto di alcune specifiche giornate, come se si trattasse di una sorta di liturgia [6].

A mio avviso, per evitare che negli studenti si ingeneri una sorta di assuefazione, che inevitabilmente conduce alla banalizzazione, tali temi andrebbero affrontati all’interno di un percorso organico complessivo, in questo modo si eviterebbe di parlare degli ebrei soltanto come vittime, soltanto in connessione con la tragedia rappresentata dalla shoah, trascurando così l’importante contributo che hanno dato alla storia europea. Occorre poi tenere presente che, anche quando sia affronta la storia degli ebrei, in genere ci si sofferma sulle vicende degli ebrei occidentali e si finisce di ignorare del tutto la millenaria storia degli ebrei che vivevano nei paesi dell’Europa orientale, una storia di enorme ricchezza culturale, che traspare dai libri di Isaac B. Singer [7]: questo è forse l’aspetto più drammatico della shoah: la completa distruzione dell’ebraismo orientale, di cui oggi non resta praticamente nulla. Non sarebbe peregrino per affrontare la shoah in modo originale, avvicinare gli studenti all’ebraismo orientale [8], tenendo conto anche del fatto che il numero più alto delle vittime riguarda proprio gli ebrei orientali.

Oggi quando si affronta la shoah si fa generalmente ricorso al testimone, soprattutto nei casi dove questo è possibile. Ma si tratta di un fenomeno che si è sviluppato nel corso del tempo: alla fine della guerra in realtà l’atteggiamento prevalente era il silenzio: infatti i sopravvissuti dei campi, fossero politici o ebrei, avevano da una parte il timore di non essere creduti (sogno ricorrente in campo anche di Primo Levi) dall’altra in generale la gente, come anche i familiari più stretti, non erano inclini ad ascoltare storie tanto tragiche: erano gli anni della ricostruzione e tutti volevano rincominciare vivere, lasciandosi alle spalle la guerra e le sue tragedie.

Così negli anni Cinquanta assistiamo ad un vuoto di memoria [9]. I temi della deportazione, così come della shoah, dei campi, restano nell’ombra. Più forte è la memoria delle vicende partigiane. Il processo Eichmann, nel 1961, rompe il silenzio. Tale processo, celebrato a Gerusalemme, e seguito dalla stampa internazionale [10], era stato ideato dal procuratore generale Gideon Hausner come una lezione di storia sulla shoah, capace di trasmettere valori forti alle nuove generazioni, non solo di Israele, ma del mondo intero. Così il processo fu organizzato non tanto e non solo sui documenti probatori, come si fece a Norimberga, ma sui testimoni. Hausner decise di ascoltare quei testimoni che avevano già consegnato le loro memorie a Yad Vashem, l’istituto storico nato nel 1954. Sfilarono così nelle aule del tribunale 111 testimoni che raccontarono la shoah. Alcune delle loro testimonianze non erano strettamente collegate ad Eichmann e alla sua attività criminale, ma la loro deposizione contribuì a tracciare i confini della lezione di storia che il procuratore voleva impartire soprattutto alle generazioni che erano nate dopo la catastrofe. Come afferma Annette Wieviorka:

«Il processo Eichmann ha liberato la parola ai testimoni, creando così una domanda sociale di testimonianze » e ancora:

«Con il processo Eichmann, comunque, il sopravvissuto acquisisce un’identità sociale di sopravvissuto, che gli viene riconosciuta dalla società stessa. […] Al sopravvissuto viene attribuita una nuova funzione: il testimone è portatore di storia. In tal modo l’avvento del testimone trasforma profondamente le condizioni stesse della scrittura della storia del genocidio» [11].

A partire dal 1961, sia il dibattito storiografico, sia quello civile sui temi della deportazione e della shoah conobbero un nuovo slancio: fu pubblicata la fondamentale opera di Raoul Hilberg La distruzione degli ebrei d’Europa, notevolmente accresciuta in una seconda edizione nel 1985 e alla fine degli anni Sessanta si celebrarono importanti processi in Germania contro i carnefici.

Godettero anche di un notevole successo di pubblico le testimonianze letterarie sulla shoah: diventano dei classici, anche nelle scuole, i testi di Levi [12], di Amery [13], di Anne Frank.

Alla fine degli anni Settanta, lo straordinario successo negli USA come in Europa, dello sceneggiato televisivo Holocaust segnò un interesse crescente per la shoah anche se non mancò una dura presa di posizione dei testimoni che fecero dichiarazioni molto pesanti sulla banalizzazione e trivializzazione della shoah presentata dallo sceneggiato 17, tratto da un libro di Gerald Green.

A partire da questo momento cominciarono anche ad essere raccolte le testimonianze audiovisive, e il genocidio degli ebrei diventò un argomento al centro del dibattito storico e politico in molti paesi. Così anche in Italia, mentre fino a questa data era stato dato più spazio alla deportazione politica, si assiste ad un rovesciamento: quest’ultima viene lasciata sempre più nell’ombra, mentre l’attenzione si concentra su quella razziale. Questo aspetto è evidente anche rispetto agli studi scientifici: mentre sulle deportazioni razziali dall’Italia si è fatta piena luce, grazie agli studi di Liliana Picciotto, la storia completa della deportazione politica deve essere ancora scritta e un gruppo di lavoro dell’università di Torino, coordinato dai professori Mantelli e Tranfaglia, in parte finanziato dall’ANED, completerà le sue ricerche in merito solo alla fine dell’anno prossimo, dopo più di sessant’anni.

Alla fine degli anni Novanta il film di Spielberg Schindler’s list registrò un enorme successo e ebbe inizio anche il grandioso progetto voluto dal regista di raccogliere le testimonianze di tutti i sopravvissuti della shoah. Non si trattava solo del desiderio di raccogliere tali testimonianze per creare un immenso archivio, ma anche perché si riconosceva alla testimonianza un importantissimo valore educativo e didattico. Infatti come ha scritto Geoffrey Hartman «l’immediatezza dei racconti in prima persona ha l’effetto del fuoco in quella gelida stanza che è la storia».

Da questo momento in poi il ricorso alla testimonianza è diventato un elemento fondamentale nell’ambito della didattica della shoah e sicuramente l’incontro con il testimone è fondamentale [14], ma occorre tenere presente che esso rimane su un piano strettamente emotivo. Per questo credo che sia utilissimo, soltanto là dove esso si prefiguri come l’elemento di un mosaico molto più ampio, il segmento di una lezione di più vaste proporzioni: se si ci affida soltanto al testimone o ad un film, o alla visita ad un luogo, si finisce per depauperare enormemente l’insegnamento della shoah, che significa, in primo luogo, cercare di comprendere i meccanismi che hanno reso possibile il nazismo, soffermandosi sulle tre tipologie umane individuate dallo storico Raoul Hilberg [15]: vittime, carnefici, spettatori. Questo significa affrontare temi di grande complessità, che richiedono il ricorso ad una pluralità di strumenti e di discipline.

Ogni testimone racconta la propria esperienza partendo dalla soggettività, e in questo senso ogni testimonianza è unica ed irripetibile, può essere paradigmatica, ma non può costituire l’unico elemento di cui si compone l’insegnamento di una vicenda così complessa come quella concentrazionaria. Quando parliamo di lager occorre tenere presente che alla fine della guerra avevano raggiunto il numero spaventoso di 1620, ma naturalmente si trattava di campi che afferivano a categorie differenti: c’erano elementi contigui, ma anche rilevanti differenze: capire la deportazione, la shoah, i genocidi vuol dire anche saper distinguere, vuol dire comprendere che cos’era Auschwitz, che cos’era Mauthausen. Affrontare la storia dei campi significa comprendere la società concentrazionaria, le sue gerarchie, le sue stratificazioni, le sue leggi non scritte.

Certo, l’incontro con un testimone crea un’empatia enorme, è come se gli studenti potessero toccare la storia, ma da qui bisogna partire per intraprendere un cammino di conoscenza capace di incidere nella vita degli studenti, altrimenti l’emozione passa e non resta nulla: soprattutto oggi, in un mondo in cui siamo continuamente sottoposti a sollecitazioni, a emozioni anche forti, ma effimere.

In qualche modo il ragionamento sui luoghi è analogo: Thomas Lutz, il direttore della Fondazione La topografia del terrore afferma che i luoghi sono testimoni di pietra che possono parlare, ma occorre saperli interrogare con intelligenza: anche la visita ai luoghi di memoria va dunque preparata con cura, soprattutto va inserita in un percorso organico che non si esaurisca nella visita stessa.

Educare ad un luogo di memoria significa, soprattutto, insegnare a leggere il luogo e comprendere anche le sovrapposizioni che la storia, con il suo passare, vi ha impresso. Significa capire i meccanismi che regolano l’uso pubblico che si fa della memoria di un luogo. Occorre che gli studenti sappiano che oggi Dachau, Buchenwald, Auschwitz non sono quello che erano ai tempi dei signori della guerra, che anche i monumenti commemorativi o i musei, hanno finito per snaturare i lager rispetto a quello che erano. È necessario essere avvertiti che per entrare in sintonia con i luoghi della memoria bisogna tenere presenti questi aspetti e cercare di ricostruire quel luogo nella propria mente, come era allora. La chiave di lettura potrebbe essere sentire il luogo, immergersi in esso ed accoglierlo in sé [16] e se questo può essere un percorso individuale (che insegnante e studente compiono per loro conto), occorrerà poi trasformarlo in una esperienza collettiva e condivisa, affinché assuma una rilevanza didattica e formativa. Educare ai luoghi di memoria significa, in ultima analisi, avere la consapevolezza, contro ogni tentativo di cancellazione della memoria, come dei suoi luoghi, dell’importanza che certe località hanno per tutti gli uomini, a patto che si riconoscano in certi valori fondamentali.

Sulla moltiplicazione dei viaggi della memoria, ha scritto pagine estremamente incisive Annette Wieviorka, in suo recentissimo libro Auschwitz, 60 ans aprè [17] in cui si interroga sulla ricaduta didattica che i viaggi della memoria possano avere su studenti così lontani da quel passato.

Infatti se si pensa ad Auschwitz si deve sapere che allora era una immensa struttura concentrazionaria e che ora il campo è del tutto diverso, perché Auschwitz I è un museo, e i blocchi in cui erano alloggiati i prigionieri oggi ospitano una mostra commemorativa, mentre Birkenau, oggi appare ai nostri occhi come una landa desolata, un immenso spazio quasi vuoto e non è facile immaginarsi come poteva essere, con le sue trecento baracche e le strutture di messa a morte, ora quasi del tutto distrutte, ed è soltanto grazie ad una visita che necessita di tempi non affannosi che si può penetrare ed immergersi nel luogo, capire la struttura dello sterminio anche se oggi non restano che rovine.

Va dunque evitata, a mio avviso, l’estrema semplificazione a cui ricorrono tanti Consigli regionali in Francia che imbarcano intere classi sull’aereo per Cracovia, visita ad Auschwitz e ritorno alla sera stessa, in questo modo si pensa erroneamente di combattere l’antisemitismo strisciante in classi in cui la presenza di studenti di origine araba rende difficile insegnare la shoah.

Non può essere questo il sistema: la visita ad Auschwitz non può diventare come un film tragico che scorre di fronte ai nostri occhi, va collocata all’interno di un percorso di lunga durata, altrimenti quello che è poi lo scopo del nostro essere educatori si smarrisce completamente finendo per creare un vuoto di memoria.

Ma la sfida è oggi enorme: se vogliamo costruire una cittadinanza europea dobbiamo fare in modo che i giovani diventino consapevoli che una identità non è necessariamente migliore di un’altra e che quella francese può coabitare con quella magrebina a patto che non si pensi che una sia necessariamente migliore dell’altra.

La riflessione sulla shoah, su Auschwitz, sulla negazione dei diritti può essere un punto di partenza proprio per insegnare ai giovani che è possibile acquisire una cittadinanza europea, che accanto alle differenze, tenga conto delle affinità.

 

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[1] Si veda a questo proposito l’indagine curata da Alessandro Cavalli, Insegnare la storia contemporanea in Europa, il Mulino, Bologna 2005.

[2] Cfr. Marco Silvani, L’insegnamento della storia contemporanea nelle scuole italiane: problemi e riflessioni, in Insegnare la storia contemporanea in Europa, a cura di Alessandro Cavalli, il Mulino, Bologna 2005, p. 187.

[3] Cfr. Aurora Delmonaco, Dove si costruisce la memoria. Il laboratorio di storia, in Dalla memoria al progetto. Seminario di formazione per docenti, Quaderno n. 5 del M.P.I., Direzione classica, Latina, Liceo Scientifico “E. Majorana”-, 1994 ; Giuseppe Deiana, Io penso che la storia ti piace. Proposte per la didattica della storia nella scuola

[4] Per un’analisi dettagliata su questa esperienza si veda Insegnare Auschwitz a cura di Enzo Traverso, IRRSAE Piemonte-Bollati Boringhieri, Torino 1995 e in particolare il saggio di Federico Cereja e Brunello Mantelli, Le ricerche sulla deportazione e sulla Resistenza promosse dal Consiglio Regionale e dalle province piemontesi nell’ambito del concorso regionale “Visite di studio ai campi di sterminio”, pp. 139-141.

[5] Cfr. in particolare I licei G. Berchet e G. Carducci durante il fascismo e la Resistenza a cura di Davide Bonetti, Giorgia De Maio, Mariagrazia Zanaboni, Milano 1996 e in particolare L’espulsione degli studenti ebrei dal Liceo Carducci, pp. 121-135; cfr. anche Una storia nella Storia. Il Virgilio 1934-1946. Ricerca di studenti e insegnanti su documenti inediti, Milano, Principato 2001; Maria Teresa Sega, La scuola fa la storia. Gli archivi scolastici per la ricerca e la didattica, Ediclo Editore, Portogruaro, 2002; Maria Luisa Perna, (a cura di), Tra vecchie carte… Esperienze didattiche negli archivi di scuole torinesi, Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea, Torino 2002.

[6] Cfr. Anna Rossi -Doria, Invocazioni della memoria e ragione della storia: a proposito del “Giorno della memoria” in Aa. Vv, Roma 1944-1945: una stagione di speranze. L’Annale Irsifar, Franco Angeli, Milano 2005 e ancora Enzo Traverso, Le memorie di Auschwitz. Commemorazioni e uso pubblico della storia in Aa. Vv. Roma tra fascismo e liberazione. L’Annale Irsifar, Franco Angeli, Milano 2006, pp. 95-105.

[7] Cfr. ad esempio Isaac B. Singer, La famiglia Moskat, TEA, Milano 1997.

[8] Non mancano diari e testimonianze, scritte tra l’altro da adolescenti, pubblicate anche in italiano: cfr David Rubinowicz, Il Diario, Einaudi, Torino 1960, Mary Berg, Il ghetto di Varsavia, Einaudi, Torino 1991. Per una riflessione sulla storia della shoah nei territori orientali vedi Omer Bartov, L’Europa orientale come luogo del genocidio, in Aa. Vv, Storia della shoah, vol. II, La distruzione degli ebrei, UTET, Torino 2006, pp. 418-460 e ancora Christian Gerlach, L’Olocausto sul fronte orientale e il suo consenso, pp. 560-590.

[9] Cfr. su questo il prezioso volume di, Anna Rossi-Doria, Memoria e storia: il caso della deportazione, Rubettino, Catanzaro 1998

[10] Cfr. il celebre saggio di Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1997.

[11] Annette Wieviorka, L’era del testimone, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999, p. 101 e 102.

[12] Specialmente Se questo è un uomo e La tregua, entrambi pubblicati da Einaudi anche in edizione scolastica. Durante gli anni della contestazione giovanile, soprattutto in Germania, è vivace i dibattito fra la generazione dei figli e quella dei padri, a cui si chiede conto delle atrocità del nazismo, nasce così un dibattito storiografico molto intenso; non altrettanto avverrà in Italia, dove continua a prevalere il mito del buon italiano.

[13] Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1987.

[14] Cfr. Brunello Mantelli, Il testimone, lo studioso, l’insegnante, lo studente: per la trasformazione dei monologhi in un dialogo in Aa. Vv, Storia vissuta, Consiglio Regionale del Piemonte-ANED- Franco Angeli, Milano 1988, pp. 229-237.

[15] Raoul Hilberg, Carnefici, vittime, spettatori. La persecuzione degli ebrei 1933-1945, Mondadori, Milano 1994.

[16] Un percorso della memoria , a cura di Tristano Matta, Electa, Milano 1996, p. 150.

[17] Cfr. Annette Wieviorka, Auschwitz, 60 ans après, Robert Laffont, Paris 2005.

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