Ferramonti di Tarsia

Il campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia 

(tratto da Carlo Spartaco Capogreco, I campi del duce, L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Einaudi, Torino 2004, pp. 242-244)

 

Questo campo – uno dei pochi realizzati a baraccamenti – entrò in funzione alla metà di giugno del 1940 in una landa malarica a circa 35 chilometri da Co­senza, che le testimonianze dell’epoca definiscono malsana, priva d’acqua e bat­tuta dal sole e dal vento. Con una superficie di 16 ettari e una presenza giorna­liera media che si aggirava sui 900 reclusi, Ferramonti rappresentò uno dei cam­pi più grandi tra quelli realizzati dal ministero dell’Interno durante la seconda guerra mondiale.

Sul luogo prescelto – posto nella media valle del fiume Crati, in territorio co­munale di Tarsia, di fronte alla linea ferroviaria Cosenza-Sibari – espresse pare­re negativo la Direzione generale di sanità, ma sui veti e le preoccupazioni eb­bero la meglio gli stretti legami con gli ambienti del Ministero dell’Interno van­tati dall’impresario Eugenio Parrini, al quale vennero affidati i lavori di realizzazione della baraccopoli.

Sottoposto alla sorveglianza interna della pubblica sicurezza e a quella ester­na della «milizia», quello di Ferramonti rappresentò il più grande campo per ebrei stranieri e apolidi. Primo direttore fu il commissario di pubblica sicurezza Pao­lo Salvatore (rimasto ininterrottamente in carica per due anni e mezzo), cui se­guirono, per un brevissimo periodo, Leopoldo Pelosio e infine Mario Fraticelli. Al momento della sua entrata in funzione, le strutture del campo consistevano unicamente in due padiglioni in via di completamento e di alcuni piccoli edifici in muratura, risalenti alla fine degli anni Venti, appartenenti al cantiere della dit­ta Parrini, nei quali vennero alloggiati la direzione e alcuni uffici.

 

ferramonti dall'alto
ferramonti 1943
ferramonti cartolina originale baracca sinagoga
ferramonti dall'alto ferramonti 1943 ferramonti cartolina originale baracca sinagoga

 

L’arrivo degli internati

I primi internati giunsero il 20 giugno del 1940 alla fine di luglio, gli ospiti del campo (per la gran parte ebrei rastrellati nelle grandi città dell’Italia settentriona­le) ammontavano a un centinaio. In settembre, con l’arrivo di un trasporto di 302 persone comprendente anche donne e bambini, provenienti da Bengasi, Ferramonti raggiungeva la cifra di 700 internati, e – delimitato ora dal filo spinato – comin­ciava a configurarsi come una comunità chiusa, per tanti aspetti paragonabile a un ghetto. Le baracche, di diverso tipo, erano costruite in materiale legnoso (carpili­te) impiantato su fondamenta di calcestruzzo: quelle «familiari» accoglievano pic­coli gruppi di tre o più internati; quelle «comuni», uomini o donne «singoli».

A partire dal novembre 1941 agli ebrei si aggiunsero altri internati stranie­ri: greci, cinesi, jugoslavi e persino – nel 1943 – francesi provenienti dalla Cor­sica. Nel giugno del 1943 vi giunse anche un piccolo gruppo di antifascisti ita­liani. La presenza ebraica, tuttavia, non sarebbe mai stata inferiore al 75 per cen­to dei reclusi del campo, che avrebbe raggiunto la punta di massimo affollamento nell’agosto del 1943, con 2016 internati.

 

Gli ebrei della Pentcho

Il gruppo ebraico numericamente più consistente giunse a Ferramonti nei mesi di febbraio e marzo del 1942: era composto da 494 giovani, prevalentemente cechi e slovacchi, che avevano tentato di raggiungere la Palestina, per sfug­gire alla persecuzione nazista, a bordo del Pentcho, un fatiscente battello fluvia­le bulgaro partito da Bratislava nel maggio del 1940 e naufragato, in autunno, nelle acque dell’Egeo.

 

Altri arrivi

Tra i tanti arrivi nel campo va certamente menzionato quello di tre giovani ebrei polacchi, giunti nel dicembre 1942 dopo una incredi­bile fuga da un campo di lavoro nazista, avvenuta il 26 ottobre.

Dal punto di vi­sta numerico, gli altri significativi trasporti ebraici, oltre quello del Pentcho, fu­rono: un gruppo proveniente da Lubiana composto da 106 «ebrei stranieri» ori­ginari della Germania, della Polonia, dell’ Austria e della Cecoslovacchia, che arrivò il 31 luglio 1941; un secondo «gruppo Lubiana», formato da 50 ebrei, nel settembre 1941; e infine un «gruppo Kavaje» (dal nome del campo albanese nel quale era stato inizialmente internato) composto da 194 ebrei, in massima parte originari di Belgrado e Sarajevo, riversatisi nel Montenegro in seguito all’occu­pazione nazista della Serbia e della Bosnia, nell’ottobre 1941. Nella prima metà del 1942, con vari trasporti di minore entità, arrivarono altri 164 «ebrei stranie­ri»: 48 provenienti da Isola del Gran Sasso; 58 da Notaresco; e 34 da Isernia ed Alberobello. Nella primavera del 1943, infine, in seguito alla disposizione del Ministero dell’Interno del 19 gennaio (la circolare 451/36426, determinata dalla drammatica scarsità di alloggi per gli sfollati italiani), giunsero a Ferramonti al­tri 300 «ebrei stranieri» provenienti dall’internamento libero in piccoli centri del­le province di Aosta, Asti e Viterbo.

Dalla Grecia un primo contingente di internati (90 persone) arrivò nel cam­po il 23 maggio 1942; un secondo contingente (30 persone) il 20 dicembre dello stesso anno; altri 120 civili greci, sgombrati dalla Libia, il4 marzo 1942. Il con­tingente più significativo di «ex jugoslavi», composto da 120 internati, giunse dal campo di Scipione il 12 luglio 1943.

 

Presenze nel campo

Data31.07.194030.09.194015.03.194115.06.194231.03.194315.08.194301.01.1944
Internati10070010001621166820161505

 

Il regolamento

A seguito delle “Prescrizioni per i campi di concentramento e per le località di internamento” inviate dal Ministero dell’Interno con una nota riservata del 25 giugno 1940, il direttore del campo di Ferramonti, il 10 luglio 1940, decise di redigere il seguente regolamento interno: 

I. Non uscire dal camerone prima delle ore 7 e rientrarvi non oltre le ore 21, fino a nuovo ordine.

II. Rispondere a 3 appelli giornalieri: alle ore 9, alle ore 12, alle ore 19. Gli appelli si fanno nel piazzale davanti alla Direzione del Campo.

III. Non oltrepassare, senza speciale permesso, i limiti del Campo che sono se­gnati da apposita tabella.

IV. Non detenere armi, passaporti, tessere ferroviarie, tessere postali, né gioielli o somme di danaro eccedenti le lire 50 (cinquanta). Documenti, gioielli e danaro vanno consegnati alla Direzione del Campo, che ne curerà la custodia.

V. Non detenere macchine fotografiche, né apparecchi radio.

VI. Non occuparsi di politica.

VII. Non leggere libri, giornali, riviste, in lingua estera, senza speciale permesso.

VIII. Non scrivere, né ricevere corrispondenza o pacchi, se non per il tramite della Direzione. ~ consentito, per il detto tramite scrivere a stretti congiunti e rice­verne corrispondenza. La corrispondenza con altre persone deve essere auto­rizzata a domanda scritta.

IX. Non giuocare a carte, né fare altri giuochi che possano costituire motivi di liti­gi.

X. Mantenere le camerate in ordine e nella massima pulizia. In ciascuna camerata dovrà essere presente permanentemente un piantone, comandato a turno, che curi la pulizia e risponda degli oggetti appartenenti agli altri internati. Ogni capo camerata comunicherà il giorno precedente al Comando Milizia il nome del piantone e di eventuali infermi, per la dispensa dagli appelli.

XI. Serbare buona condotta, non dare luogo a sospetti e tenere contegno discipli­nato.

XII. Osservare tutte le prescrizioni che verranno impartite dalla Direzione.

XIII. I contravventori saranno puniti a norma delle leggi e dei regolamenti.

 

Vita nel campo

Gli ebrei riuscirono a organizzare un’intensa vita comunitaria con numerose iniziative «di pubblica utilità»: le mense, la biblioteca, tre sinagoghe, un poliam­bulatorio, un «tribunale» e persino una sorta di parlamento degli internati. Tali strutture – riconosciute ufficiosamente dalle autorità – contribuirono a rendere più sopportabili le condizioni di vita e a combattere la monotonia di un internamento che avrebbe potuto protrarsi per anni. Nel marzo del 1942 giunse in visita il rab­bino capo di Genova Riccardo Pacifici, personalità di spicco dell’ebraismo italia­no. L’anno prima aveva visitato Ferramonti il nunzio Borgongini Duca.

Lo stato di prigionia era reso evidente dal filo spinato, dagli appelli e dalle garitte di sorveglianza. Tuttavia, il comportamento delle autorità (a partire dal bonario maresciallo che comandava gli agenti di pubblica sicurezza, Gaetano Mar­rari) fu generalmente tollerante. I pochi casi di violenza fisica si limitarono ad al­cune aggressioni messe in atto dalla milizia. Le condizioni di vita nel campo ini­zialmente erano tollerabili, perché gli internati ebrei poterono contare sul note­vole apporto, morale e materiale, della «Delasem» e della «Mensa dei Bambini». Influivano negativamente il clima (molto umido d’inverno e caldissimo d’estate) e la particolare incidenza della malaria – non del tutto debellata – che obbligava alla continua assunzione del chinino. Dalla fine del 1941, le difficoltà degli ap­provvigionamenti e le restrizioni alimentari fecero gradualmente peggiorare la si­tuazione e, nell’inverno 1942-43, anche nel campo di Ferramonti imperversò la fame. Comunque, nei circa tre anni di funzionamento, per motivi accidentali o di salute, persero la vita soltanto 37 internati.

Tra gli ebrei rinchiusi a Ferramonti si ricordano, in particolar lo psicoterapeuta Ernst Bernhard, il pittore Michel Fingesten, il futuro storico israeliano Menachem Shelah. Tra i greci, il «sottovescovo» di Corinto, Damaschinos Hagiopulos, e il prefetto di Corfù, Evanghelos Averoff Tossizza. Del piccolissimo gruppo francese, giunto nel giugno 1943, faceva parte il generale Cosimo Poli Marchetti, internato quale «estremista antiitaliano».­

Nel gennaio del 1943, le denunce degli ambienti più intransigenti della federazione fascista di Cosenza, che da mesi accusavano la direzione del campo di «atteggiamento troppo benevolo verso gli internati», portarono alla rimozione di Paolo Salvatore. In luglio il ministero dell’Interno ipotizzò di sgomberare gli internati in provincia di Bolzano, ma con la caduta del regime fascista cadde anche tale rischiosa ipotesi.

 

I bombardamenti del 1943 e la liberazione

Un mese dopo, invece, Ferramonti fu toccato direttamente dal conflitto: alcuni aerei alleati, ritenendo di individuare nella baraccopoli del campo una base militare, il 27 agosto ne colpirono un padiglione cagionando la morte di quattro internati ed il ferimento di altri undici. Il 14 settembre 1943, infine, il campo venne raggiunto dalle avanguardie dell’VIII Ar­mata britannica, e gli ebrei riuscirono così a mettersi al riparo dalla più volte temuta deportazione in Germania.

Allora, di pari passo con lo smantellamento del campo fascista, nelle stesse baracche, iniziò a operarne uno nuovo per displaced persons, posto sotto il con­trollo delle autorità d’occupazione alleate. Per alcuni mesi, questo «secondo cam­po» di Ferramonti avrebbe costituito una delle più numerose ferventi comunità ebraiche dell’Italia liberata, anche se sempre più frequenti furono le partenze ed i trasferimenti di ex internati verso le città di Cosenza e di Bari, nonché verso la Palestina e gli Stati Uniti. All’organizzazione del primo trasporto verso la Pale­stina avrebbe preso parte attiva il leader sionista Enzo Sereni, che fu apposita­mente a Ferramonti nella primavera del 1944.

 

Per maggiori approfondimenti si veda, inoltre, il saggio di Mario Rende, consultabile qui.

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