La famiglia Lederer

La famiglia Lederer

 

Anche la storia della famiglia Lederer è legata a Piove di Sacco. Otto, Ruza, Mira e Ivo, rispettivamente padre, madre e figli, appaiono la prima volta in un documento del 5 agosto 1941 [1] in cui la Prefettura di Spalato informava l’Ufficio Passaporti del Ministero dell’Interno, ma anche le Prefetture di Roma, Firenze e Padova, del fatto che i tre ebrei croati erano arrivati a Spalato il 2 luglio provenienti da Zagabria e avevano chiesto un lasciapassare per potersi recare a Firenze, Padova ed Abano Terme per delle cure. Un’annotazione finale è significativa: la famiglia possiede dei mezzi finanziari per sostenersi, senza pesare quindi sullo Stato. Un elemento già incontrato e di sicuro una discriminante importante nel decidere se fare entrare o meno gli ebrei stranieri in Italia. Il Ministero non concesse l’autorizzazione [2] anche perché ogni volta c’erano altri dati da prendere in considerazione quali quelli che si riferivano alla pericolosità, all’appartenenza politica, all’aperta manifestazione di atti ostili al fascismo e così via. Un documento del 6 settembre è rivelativo. Il Ministero ricevette da Spalato un’informativa che fu girata alla DAGR e al Ministero degli Esteri. Si viene così a sapere che “le dottoresse Lederer Ruth e Mira, sposata Gauss, congiunte del Lederer Otto, sarebbero state condannate a Zagabria e a Belgrado per attività comunista” [3]. L’Ufficio passaporti ammetteva di non avere altri elementi, ma poneva comunque all’attenzione la questione di questi rapporti. Pochi giorni dopo, due verbali d’interrogatorio dell’Ufficio di Pubblica Sicurezza della Questura di Padova [4] fanno scoprire quale fu la reazione dei Lederer davanti alla situazione di impasse in cui si vennero a trovare. Otto, un uomo alto, robusto, dal colorito bruno, occhi castani, barba rasa, fronte spaziosa, naso e bocca regolari, arrestato con il resto della famiglia l’11 settembre, dichiarava di essere profugo da Zagabria in quanto ebreo. Furono trovati a Padova con dei documenti falsi ed era questo il vero motivo del fermo, prima di scoprire che fossero ebrei. Ciò che è più interessante è la dichiarazione dell’avvocato Otto. Era entrato nel Regno arrivando ad Ancona il 14 agosto 1941, quando il Ministero doveva ancora pronunciarsi sull’autorizzazione all’ingresso in Italia. La sua speranza riposava sul lasciapassare n. 3235 rilasciato dalla Questura di Spalato il 26 luglio 1941 valido per Padova – Abano – Bologna fino al 30 novembre, se non fosse che l’aveva ricevuto da un “sedicente avvocato che avrebbe conosciuto in un pubblico esercizio di Spalato in seguito ad indicazione di altri avventori a lui ignoti e mediante compenso di £ 250. Precisa di aver pagato al predetto avvocato lire mille complessivamente per il suo lasciapassare e per quello della moglie e di due figli” [5]. Il pagamento di somme di denaro in cambio di documenti o semplicemente per passare il confine non fu qualcosa di sporadico. Dai documenti relativi anche ad altre province venete emergono diversi casi simili. Tenendo conto del contesto riguardante la Jugoslavia a partire dall’aprile del 1941, è possibile immaginare che ci fosse un sistema abbastanza collaudato che provvedeva all’ingresso clandestino degli ebrei da un territorio all’altro della ex Jugoslavia (ad esempio dalla Croazia alle zone controllate dagli italiani come la Dalmazia) o direttamente in Italia, accanto alle altre modalità registrate: dall’atto di consegnarsi direttamente alle autorità italiane agli arresti compiuti sul posto [6]. Come visto, i documenti restituiscono anche i tentativi di cercare riscontri alle dichiarazioni degli ebrei che si spostavano clandestinamente da Zagabria a Spalato. Proprio nella città croata, secondo le indagini condotte dagli italiani, si muoveva un’“apposita organizzazione composta uomini e donne che rilasciano detti documenti non rivelando la loro identità”. Di questo gruppo faceva parte un trentenne, alto, robusto, vestito elegantemente, noto a Belgrado come italiano, ma che parlava anche il croato. I lasciapassare venivano venduti a cifre variabili che andavano da piccole somme fino a 10.000 dinari. Questo aspetto creò in Giuseppe Bastianini, governatore della Dalmazia, il sospetto che si trattasse di un’organizzazione con fini politici [7].

Le circostanze vissute da Lederer erano quindi quelle di altre migliaia di ebrei che tentavano di aggirare blocchi e controlli. In un comunicato del 9 novembre 1942, inviato dal Governo della Dalmazia al Ministero dell’Interno, la situazione appare in tutta la sua chiarezza: al momento dell’annessione risultavano 485 ebrei, mentre a maggio 1942 arrivarono 2748 profughi ebrei dall’ex Jugoslavia. I primi non furono toccati perché avevano un domicilio stabile. Di quelli giunti successivamente, 560 furono internati sull’isola di Curzola (Korčula), 1183 furono internati in Italia e 475 respinti in territorio croato, con le conseguenze ben conosciute da parte di Mussolini e dei Ministeri [8]. Al 31 ottobre, oltre ai domiciliati, restavano 530 ebrei che si trovavano ancora in zona e che sarebbero stati a loro volta internati o respinti [9]. Se allontanare questi “elementi pericolosi” dalla Dalmazia era una priorità e, in base alle circostanze si valutava il respingimento o l’internamento, c’erano anche problemi pratici di difficile gestione, come il numero di ebrei sprovvisti di mezzi di sussistenza o che col tempo non avevano più disponibilità economica. Inizialmente aiutati dalla comunità israelitica di Spalato, quando anche quest’ultima non riuscì più a fronteggiare la situazione, già nel luglio del 1941 Bastianini interessò direttamente Mussolini i cui uffici chiesero alla DGPS di prendere le relative determinazioni per un eventuale internamento nella penisola [10].

In questo quadro generale, la famiglia Lederer riuscì quindi a raggiungere l’Italia. Otto si presentò davanti alla polizia con 6500 £ italiane in contanti e un passaporto jugoslavo, ormai inutile, rilasciato il 22 settembre 1932 dalla Polizia di Zagabria e valido fino al 1° aprile 1940. La moglie Ruza, architetto, 174 cm, snella, colorito rosso, occhi castani, fronte spaziosa, naso e bocca regolari, come veniva descritta nei documenti, confermò le dichiarazioni di Otto, pur non potendo dire nulla sull’autenticità dei documenti di cui erano in possesso, affermando che “so soltanto che mio marito si rivolse ad un intermediario preoccupato di ottenere con ogni urgenza i lasciapassare per se e per la famiglia” [11]. I dati furono prontamente inviati dal prefetto di Padova al Ministero [12] così come fu allertata la Scuola Superiore di Polizia per garantire la necessaria sorveglianza [13]. Nelle stesse ore giungeva a Roma un’altra lettera della Prefettura di Padova che è interessante perché si ritrova il nome di Otto Lederer all’interno di una comunicazione che riguarda un altro ebreo, Ignazio Weiss. Il conte Agostino Cesare Vittorelli, subentrato come prefetto all’avvocato Oreste Cimoroni e rimasto in carica dal 6 agosto 1941 al 25 ottobre 1943 [14], segnalò la presenza a Padova di Weiss, anche lui entrato con la moglie e i figli con documenti falsi, e degli altri correligionari “in identiche condizioni” [15]: Fritz Gunsberger con la moglie Magda Fischgrund, Otto Lederer e Zvonko Sors. Va subito detto che la destinazione di alcuni di questi ebrei fu la provincia di Vicenza. Se, infatti, Sors fu poi internato ad Aosta e poi a Castellamonte, mentre la moglie Bianca Furst e la figlia Renata finirono ad Aprica prima di raggiungere Zvonko, Fritz e Magda furono internati a Lonigo, ma solo dall’estate del 1942. Arrestati il 28 agosto a Padova, dove avevano preso alloggio all’albergo Zaramella, passarono attraverso una trafila già vista: campo di concentramento (Ferramonti per lui, Vinchiaturo prima e Ferramonti poi per lei) furono trasferiti nel vicentino il 5 agosto 1942 per poi fuggire il 12 settembre 1943, mettendosi in salvo. Ignazio Weiss fu portato a Enego con la moglie Carlotta Rosenthal e i figli Gerard e Zlatko. Fuggiti il 17 settembre 1943, anche loro si salvarono [16]. In modo non dissimile dai Lederer, quando furono arrestati a Padova, dichiararono di essere scappati da Belgrado per paura di essere fucilati dai tedeschi [17]. Dieci giorni dopo il loro arresto, Otto Lederer fu destinato alla colonia di Lipari, mentre la moglie e i figli all’internamento nel padovano [18]. Sull’invio di Otto a Lipari, il noto confino, nella seconda metà degli anni Venti, di Dolci, Nitti, Rosselli e Lussu, si aprì uno scambio, a tratti aspro, di pareri e comunicazioni tra il Ministero e le Prefetture di Padova, Spalato e Messina. Probabilmente la presenza di documenti falsi e quella nota sulle congiunte vicine al comunismo, fecero optare il Ministero per Lipari, una destinazione altrimenti insolita per un ebreo straniero. Dopo la chiusura della colonia di confino del 1933 e un periodo in cui l’isola fu usata per i cosiddetti “proteggendi”, a Lipari fu istituito un campo di concentramento operativo proprio dal 1941. Lì, così come a Ustica, furono confinati degli “internandi comunisti” [19]. Tra la fine di novembre e la metà di dicembre 1941 ci furono molteplici trasporti partiti da Fiume e Spalato verso campi e località d’internamento. Il prefetto di Fiume, ad esempio, il 22 novembre comunicò al Ministero l’elenco dei 50 ebrei destinati a Vicenza, di 142 internandi da inviare a Lipari e di 15 donne destinate a Lipari e poi inviate nel campo di Lanciano [20].

La Prefettura di Padova dispose, quindi, l’accompagnamento di Otto a Lipari e l’internamento del resto della famiglia a Piove di Sacco [21], se non che da Spalato arrivò la convocazione di Otto visto che, non essendo riusciti a identificare l’avvocato che aveva fornito i documenti falsi, e “ritenendo Lederer reticente” chiedevano di vederlo “per essere sottoposto stringente interrogatorio et sostenere eventuali confronti” [22]. Così, mentre il 24 settembre 1941 Ruza, Mira e Ivo giungevano a Piove, presso le sorelle Beltramelli in via Conte del Panico 20 [23], e si apprestavano a vivere secondo le prescrizioni previste per gli internati [24], Otto rimaneva sospeso davanti all’incomprensibilità della macchina burocratica. Due mesi dopo il prefetto di Spalato comunicò che il 20 novembre Otto era stato inviato a Lipari con un contingente di ebrei destinato all’isola siciliana [25]. Effettivamente si ritrovano a Lipari alcuni ebrei (nove di questi furono poi internati a Marostica [26]), ma non Otto che il 29 novembre scriveva da Canove di Roana, località di internamento del vicentino, per chiedere il ricongiungimento con la famiglia ad Abano, dove nel frattempo sperava di essere trasferito il resto della famiglia. Anche lui, nel presentare le istanze, cercava di proporre soluzioni e ragionamenti per persuadere le autorità: “Con ciò si raggiungerebbero due scopi: 1) il richiedente non avrebbe più bisogno della sovvenzione da parte delle Autorità Italiane; 2) egli potrebbe vivere in seno alla famiglia, risparmiando la spesa di vitto e alloggio presso l’albergo. Il richiedente da circa tre mesi non vede la propria famiglia ed anela ardentemente di poter congiungersi ad essa, per essere anche di conforto ed aiuto nella vita di emigrazione, lontana dai propri paesi ed altri parenti” [27].

Il podestà di Roana non perse tempo a dare il suo nulla osta, ma si tendeva a evitare l’invio di ebrei ad Abano “essendo luogo di cura frequentato da stranieri, non si presta ad essere adibito a località di internamento” [28]. L’istanza di Otto, ispirata ad una logica stringente, mise però in moto i meccanismi della memoria lunga del Ministero. Non solo. Il 20 gennaio 1942 l’avvocato Giulio Recanati chiese udienza al commendatore Pennetta del Ministero dell’Interno per discutere della situazione di Otto [29]. Passarono quattro giorni e il prefetto di Padova ricevette da Roma una richiesta di spiegazioni: se Otto “fu assegnato per l’internamento nella colonia di Lipari” e “poiché il predetto risulta trovarsi internato a Canove di Roana, si prega di far conoscere gli estremi della ministeriale con la quale ne fu disposto l’internamento in detta località e perché non sia stato tradotto a Lipari” [30]. Cos’era accaduto dopo quell’ultimo documento con cui a Spalato veniva disposto l’invio di Otto a Lipari? La Prefettura di Padova rispose affermando che “dopo di ciò, non si sono avute altre notizie circa i di lui spostamenti. Ciò premesso, questo ufficio non è in grado di fornire alcun chiarimento sulla presenza a Canove di Roana dello straniero (…). La Prefettura di Vicenza è pregata di fornire (…) le possibili notizie” [31]. Cecità della burocrazia che tutto vorrebbe controllare e gestire, e spesso riesce nel suo intento, ma che nella suddivisione dei compiti e nella moltiplicazione di mittenti e destinatari può arrivare a ignorare gli stessi meccanismi che essa ha posto in essere.

Due settimane dopo venne il turno di Paolo Zerbino, prefetto di Spalato. Ricordando che dopo l’interrogatorio Otto era stato inserito in uno scaglione di 50 ebrei (con riferimento al trasporto del 20 novembre 1941) da inviare a Lipari, non forniva nessuna spiegazione sull’accaduto e pregava la Prefettura di Vicenza di inviarlo nel campo siciliano [32]. Altre due settimane occorsero per la risposta del dott. Giulio Alliaudi da Vicenza. Il prefetto, con una comunicazione asciutta, riportò che Otto era stato tradotto a Vicenza dove arrivò un gruppo di 50 ebrei provenienti dalla Dalmazia [33]. La Prefettura di Vicenza faceva riferimento ad uno dei due trasporti di quei giorni che videro l’arrivo di 250 ebrei da internare. Non è difficile immaginare un errore nella compilazione degli elenchi o nello smistamento degli ebrei nei diversi gruppi. Fatto sta che la pratica relativa alla sede di internamento di Otto andò avanti per mesi. Il 7 marzo il Ministero sospese il trasferimento a Lipari [34] e quello stesso giorno chiese a Padova un parere sul suo trasferimento a Piove di Sacco, come Otto stesso aveva chiesto, e che fosse sottoposto ad una visita fiscale [35]. Il prefetto di Padova si oppose al suo arrivo per “l’eccessivo numero di ebrei residenti nella provincia” e la “particolare sensibilità dei fascisti nei loro confronti”. Controproposta: “Quest’ufficio riterrebbe più opportuno consentire ai familiari residenti a Piove di Sacco di raggiungere il capo-famiglia a Canove di Roana (…)” [36]. Una settimana dopo il prefetto di Vicenza inviò a Roma il certificato medico a seguito della visita richiesta dal Ministero: “(…) è necessario che il paziente possa trasferirsi in clima più mite e precisamente a Padova ove risiede la sua famiglia” [37]. Ancora qualche giorno e il Ministero dispose il trasferimento di Otto da Canove a Piove di Sacco [38], dove giunse, a seguito di altre disposizioni locali, il 26 aprile [39].

Prima dell’ottenimento del trasferimento, è interessante mostrare il tentativo parallelo che alcune persone portarono avanti per i Lederer. Al già citato avvocato Giulio Recanati, che tornò a Roma anche il 21 febbraio per Otto e per Ettel Schmetterling [40], il 2 aprile si aggiunsero Leo Lenski, a nome del signor Benigni di Padova, e il 30 maggio lo stesso Benigni che chiedevano di parlare con Sua Eccellenza Rosa [41]. Legato a questi colloqui richiesti al Ministero dell’Interno è un documento intitolato “Pratica Dr. Otto Lederer”. Alcuni appunti a mano presenti sul documento rimandano da una parte al signor Benigni e dall’altra al commendatore Pennetta. Il testo ricostruisce quanto accaduto ad Otto, che viene definito “cattolico, ma di razza ebrea”, a partire dalla fuga da Zagabria a Spalato.

 

Dopo un certo tempo ha sentito a Spalato che tutti i profughi debbono essere trasportai in Albania, e siccome era a Spalato con suoi due bambini, ha fatto una domanda a Roma al Ministero dell’Interno chiedendo il loro trasferimento a Padova. La domanda non fu sbrigata durante il soggiorno del Lederer a Spalato, ma nel frattempo un avvocato (il nome non si ricorda più) si è presentato dal Lederer ed anche allo stesso tempo ad altre due famiglie precisamente, Zvonko Sors, e Ignazio Weiss, il quale avvocato ha offerto il suo servizio per procurare un lasciapassare per Padova, perfettamente regolare, come ha detto, e ha fatto sottoscrivere di queste famiglie una domanda alla R. Questura di Spalato. Dopo un certo tempo ha portato i lasciapassare per queste tre famiglie, si ha fatto pagare il suo intervento e le tre famiglie sono giunte a Padova. Dopo cca 3 settimane la Questura di Padova si è accorto che i lasciapassare erano falsi, e il Ministero dell’interno a Roma ha destinato la famiglia Weiss a Spalato, il Sors anche a Spalato, e il Lederer per Lipari (perché il Lederer a Lipari, non si sa). Ma il Lederer non fu tradotto a Lipari, perché nel ultimo momento il Ministero ha deciso anche per Lederer di andare a Spalato. A Spalato era un interrogatorio presso il Tribunale, il quale ha constatato che queste tre famiglie sono venute a Padova con un falso lasciapassare, ma che hanno agito in “bona fede”. Dopo questo e secondo l’ordine del Ministero, (…) fu mandato (…) il Lederer a Vicenza, precisamente a Canove di Roana.

 

Al di là di alcuni dati non coincidenti e dell’impossibilità per il perorante di conoscere l’iter burocratico, il documento è utile per capire ulteriori dettagli del processo di internamento, in particolare sui documenti falsi e sulla questione di Lipari su cui nel documento si dice: “In quanto a Lipari, si tratta certamente d’uno sbaglio, perché il crimen, (…), era per tutte le tre famiglie dunque per Weiss, Sors e Lederer, uguale, ma il Ministero si ne è accorto perché ha cancellato la destinazione del Lederer per Lipari, e finalmente ha deciso l’internamento nella prov. di Vicenza (…)”. Il colloquio a Roma, in conclusione, tendeva a sottolineare che la domanda di ricongiungimento non era stata ancora evasa “e siccome il dott. Lederer è già diviso di sua famiglia cca 6 mesi, ha sofferto molto si trova adesso in uno stato assai desolato, ha bisogno della cura di sua moglie, si prega caldamente di sbrigare la domanda favorevolmente (…)[42].

Otto, già schedato al momento dell’arresto, si ritrovò descritto al momento di ricevere il foglio di via per Piove di Sacco: 45 anni, 181 cm, capelli brizzolati, fronte regolare (non più spaziosa), sopracciglia e occhi castani, naso e bocca regolari, barba rasa, colorito sano (prima era bruno), corporatura regolare (già descritta come robusta). Marche particolari: cicatrice obliqua alla guancia sinistra [43]. L’avvocato Otto, l’uomo qualunque Otto, l’ebreo Otto, il sospettato Otto rivide finalmente la sua famiglia e si trasferì anche lui presso le sorelle Beltramelli [44]. Una vita che non esiste al di fuori dell’occhio falsamente onnisciente di un potere totalitario. Quest’ultimo, a distanza di nove mesi, riprese in mano la pratica delle congiunte sovversive. Altre indagini: “Si comunica che sul conto della persona in oggetto risulta: Lederer Mira di Hinko e Irma Neumann nata il 23 febbraio 1918, studentessa in medicina, conosciuta per attiva propaganda sovversiva. Nel dicembre 1939 alle votazioni studentesche dell’Università di Zagabria era a capo dell’agitazione comunista che ebbe vittoria a quelle elezioni. Lederer Ruth divorziata Wertheim dr Paolo, ora in Davico, figlia di Hinko e Irma Neumann nata a Kostainica il 15.9.1912, dottoressa in medicina, già in questo ospedale banovile in qualità di sanitario, risulta essere nota negli ambienti politici per la sua irriducibile attività sovversiva. Attiva e intelligente propagandista comunista è stata sovente arrestata dalla polizia ex jugoslava per distribuzione manifestini propaganda e per attività in genere nonché per aver dato ricetto e mantenuto contatto con altri elementi comunisti pericolosi” [45]. Di quale Mira Lederer stavano parlando il Ministero degli Affari Esteri e quello dell’Interno con il coinvolgimento delle Prefetture e delle Legazioni di Belgrado e Bratislava? Quali persone erano coinvolte in questa grossolana caccia al nemico? Qualcuno a matita ebbe il pudore di annotare che si trattava di una congiunta e non della figlia di Otto. Ma il processo burocratico, che una volta avviato trova in se stesso l’automatismo per procedere, come ha ben mostrato Bauman, un mese e mezzo dopo scavava ancora: “Si ha pregio di comunicare quanto è stato riferito dalla R. Legazione a Bratislava: ‘Da informazioni assunte risulta che il nominato Otto Lederer fu Giuseppe non ha mai abitato all’indirizzo Grosslinggasse 51 e che egli è del tutto sconosciuto presso queste Autorità di Polizia. Per quanto riguarda, invece, l’Otto Lederer di cui al telespresso (…) onorami riferire quanto segue: Otto Lederer, israelita, nato il 23 ottobre 1889 a Rimbur (Sudeti) figlio di Giulio e di Guglielmina Watzler, ammogliato, è tuttora impiegato presso il cessante ufficio Centrale ebraico di Bratislava e si presume che quanto prima verrà deportato, come avviene con la maggioranza degli ebrei residenti in Slovacchia. Abita effettivamente a Riegrova n.612/I. Presso la locale Polizia il predetto figura iscritto come sospetto in linea politica. In particolare lo si sospetta di aver favorito l’espatrio illegale dei suoi correligionari. Fino al 1938 egli era impiegato presso la società di Navigazione Donau Dampfshiffahrts Gesellschaft. Sul figlio Fritz Lederer, espatriato il 18 maggio 1940 con la nave Pentscho poi naufragata nei pressi di Rodi, non è stato possibile ottenere informazioni di natura politica [46]. Il documento non trae nessuna conseguenza sullo scambio di persona, ma è evidente che anche su Otto si allungano ombre non sue. Nel tragicomico inseguimento ai pericolosi ebrei, emerge un dato che è visibile in molte altre documentazioni legate a ebrei presenti in Italia e nei territori conquistati: il richiamo alle politiche discriminatorie e alla deportazione. Spesso alla ricerca delle prove che dimostrino il coinvolgimento del regime fascista nella Shoah, non si è posta sufficiente attenzione sui fascicoli personali, gestiti a livello ministeriale, da cui emergono numerose informazioni di ciò che accadeva nell’ex Jugoslavia, ma non solo. Sia a livello locale sia a quello centrale, tra il 1941 e il 1942, erano state raccolte testimonianze che indicavano in modo inequivocabile la deportazione e l’uccisione degli ebrei, come si può notare dalle diverse storie riportate in questo stesso studio.

A differenza di altre situazioni (si veda la storia dei Mstowski) l’attenzione nei confronti di Otto Lederer rimase alta. Il 21 agosto 1942, a circa quattro mesi dal suo arrivo a Piove, il prefetto Vittorelli credeva fosse opportuno segnalare il comportamento poco consono dell’internato: “(…) da qualche tempo si dimostra insofferente dei vincoli dell’internamento e dà luogo a sospetti per contatti non chiari con elementi della sua razza e perché si reca sovente, senza autorizzazione, in questo capoluogo. Ciò posto si prega codesto Ministero di voler disporre il trasferimento di detto ebreo internato con la famiglia, (…), in un comune di altra provincia, tenendo presente che egli ha testé prodotto istanza per essere trasferito in altro comune di questa provincia dal clima asciutto, perché ammalato (…) [47]. Quale la colpa? Avere contatti con altri ebrei a Piove di Sacco, in un comune che alla vigilia della guerra contava 15.000 abitanti e in cui gli unici che condividevano il suo destino, oltre che la sua religione, erano meno di venti anime, lo 0,1%. Secondo tratto di pericolosità: allontanarsi dal comune di internamento senza autorizzazione. Sicuramente una contravvenzione alle prescrizioni, ma chi avrebbe dovuto controllare Otto? Chi si sarebbe dovuto accorgere che delle persone, come i Mstowski, si spostavano addirittura da una regione all’altra senza che nessuno lo notasse? Come avrebbero potuto trovare soddisfazione ai propri bisogni economici e sociali se non al di fuori dei divieti e della negazione dei permessi? La soluzione del prefetto: il trasferimento in altra provincia, utilizzando come base la richiesta di Otto di essere trasferito all’interno della stessa provincia di Padova. Come già visto, Vittorelli, che dai documenti disponibili, non emerge sempre come una figura efficiente e celere nel suo lavoro, non perdeva occasione per segnalare che la provincia di Padova aveva troppi internati. Sicuramente Padova aveva un’importanza strategica da un punto di vista militare e ospitava il grande campo di concentramento di Chiesanuova, ma se ci si ferma a riflettere sul numero degli internati nei comuni non si tratta di cifre elevate, almeno non tra il 1941 e il 1942. Sicuramente più difficile la situazione nell’inverno 1942-1943, quando a seguito dei bombardamenti sul nord Italia ci furono consistenti movimenti di sfollati.

Tornando a Otto Lederer, i documenti non riportano il dettaglio di quegli atti tanto deprecati che poi spinsero il Ministero ad invitare il Prefetto a diffidarlo “a non dar luogo ad ulteriori rilievi con la sua condotta” e a trasferirlo in un altro comune della provincia [48]. Nonostante ciò Vittorelli chiese, dodici giorni dopo, quali fossero le determinazioni del Ministero, dato che “tanto lui quanto i membri della sua famiglia si siano resi sempre più invisi all’ambiente fascista locale che ne reclama l’allontanamento [49]. Quello stesso giorno il questore di Padova predisponeva il trasferimento dei Lederer a Cittadella [50], pur utilizzando lo stesso linguaggio e le medesime motivazioni: “Il suo allontanamento da Piove di Sacco si rende quanto mai necessario e urgente essendosi reso inviso all’ambiente fascista locale. Il podestà di Cittadella è pregato di agevolare i Lederer specialmente nel trovare alloggio, facendo presente che la loro presenza nel detto Comune sarà certamente limitata a qualche settimana, in quanto è stato interessato il Superiore Ministero per il loro allontanamento definitivo dal territorio provinciale. Qualora essi opponessero comunque delle difficoltà, il Podestà di Piove è pregato di munirli di foglio di via obbligatorio per il detto comune [51]. Data limite: 30 settembre. Nonostante il Ministero avesse dato istruzioni, si continuò a prefigurare un allontanamento definitivo dalla provincia. Il 24 l’ordine fu reso noto a Otto [52]. Il podestà di Cittadella, il cav. Paolo Favaretti, ebbe il compito di diffidarlo a “non dare ulteriori rimarchi” [53], cosa che venne effettuata il 24 non senza una minaccia a “gravi provvedimenti” [54].

Il contatto precedente con la nuova destinazione avvenne due settimane prima, quando Otto si presentò all’ufficio anagrafe di Cittadella per richiedere i documenti necessari per poter poi provvedere all’acquisto degli abbonamenti ferroviari per se stesso e per i due figli. Alla fine della comunicazione di Favaretti alla Questura, il podestà chiese “a quale regime deve essere sottoposto il Lederer trattandosi di internato libero” [55]. Tanto che il questore si vide costretto ad istruire Favaretti spiegandogli che Otto “non deve dare luogo a rimarchi con la sua condotta in genere, deve essere sottoposto al controllo postale e dei pacchi a lui diretti e non deve mai allontanarsi da cotesto Comune, senza l’autorizzazione (…). Non può recarsi né a Padova né nei comuni di Monselice, Arzergrande, Codevigo, Correzzola, Este, Trebaseleghe, Vigodarzere e Godiasco [56], militarmente importanti, né tampoco fuori provincia, senza il preventivo nulla osta di questo ufficio”. Un modo indiretto, in questa ricerca, di sapere quali zone del padovano fossero ritenute centrali. Alla fine il questore non concesse il premesso per l’ottenimento dell’abbonamento ferroviario [57], ma il podestà tornò a porre la stessa questione undici giorni dopo aggiungendo che i ragazzi avevano bisogno di frequentare le scuole ebraiche a Padova e che, “in caso negativo, sarebbero costretti abbandonare gli studi” [58] pregandolo di esprime un parere favorevole. L’11 novembre il questore respinse nuovamente la richiesta, non senza aver consultato gli organi militari  [59]. Una decisione che appare incredibile se si pensa che nello stesso periodo altri bambini frequentavano la scuola ebraica di Padova.

Opposto l’atteggiamento delle autorità, per fortuna, davanti a urgenti motivi di salute. Il dott. Antonio Tiziani di Cittadella certificò che Ivo aveva bisogno di un ricovero immediato presso la Casa di cura del prof. Rodighiero a Padova. Il podestà e il questore autorizzarono il viaggio nel capoluogo con rientro in giornata [60], anzi dalla Questura arrivò l’autorizzazione affinché Rosa potesse restare a Padova per altri quattro giorni, fino al 28 novembre, per assistere il bambino [61]. Nessun documento spiega i motivi del ricovero, ma i fatti devono essere stati di una certa consistenza se il 7 dicembre il questore concesse a Mira ed Ivo di recarsi a scuola [62].

Nell’inverno 1942-1943 Rosa presentò dei problemi fisici. L’unica soluzione erano i fanghi delle terme di Abano [63]. A partire dal 18 gennaio 1943 [64], quando Rosa fu visitata anche dal dott. Emilio Astori Rosa di Abano [65], ricevette continui permessi per le sue cure fino a al 15 giugno [66]. Anche in questo caso la burocrazia non mancò di perpetuare se stessa e il proprio modo di operare, non solo facendo aumentare il numero di richieste che Rosa doveva produrre per ogni viaggio ad Abano, ma chiedendole nuovamente di dimostrare la necessità delle sue cure [67], nonostante i due certificati medici, di due comuni diversi, con cui Rosa aveva iniziato le pratiche. Non dissimile il meccanismo che portò Otto a ricevere il permesso per recarsi all’Ufficio Stranieri della Questura di Padova per conferire con il dott. Vellucci [68]. L’intento era quello di organizzare l’emigrazione della famiglia all’estero. Ricevuta la prima autorizzazione due settimane dopo la richiesta iniziale [69], Otto rese noto che per sbrigare le pratiche aveva bisogno di tornare a Padova una volta a settimana per due o tre mesi [70]. Si assiste così alla moltiplicazione amministrativa dei permessi. Dato che probabilmente l’iter non fu così veloce, ritroviamo Otto con un’ultima autorizzazione valida per il 7 settembre 1943 [71], alla vigilia dell’armistizio.

Il 4 maggio il Ministero aveva respinto l’istanza di Otto [72], ma il 20 settembre la Prefettura di Padova, richiamando disposizioni ministeriali non presenti tra i documenti, comunicò che la famiglia era partita il 10 per Roma “per proseguire per via aerea per la Spagna” e si rivolse alla Questura di Roma per pregarla di “assicurare la partenza” [73]. Vedremo poi cosa accadde ai Lederer. Per il momento è importante soffermarsi sul tentativo di uscire dal Regno perché, come spesso accade, attraverso le pratiche e i tentativi di perorare le proprie cause gli internati fanno emergere importanti aspetti della loro vita. Già a metà febbraio del 1943, Otto e Ruza (Rosa) da Cittadella scrissero al Ministero per spiegare i contorni della situazione:

L’Ambasciata del Venezuela a Madrid già ha ricevuto l’ordine di apporre sul mio passaporto, valido fino al 12 gennaio 1944, e che concerne sia me, sia mia moglie e i miei due figli, il visto di ingresso nel Venezuela ed è stato autorizzato ad apporre tale visto anche senza la mia presenza. Le pratiche per ottenere il necessario visto di transito attraverso la Spagna già sono in corso [74].

Avanzò quindi la richiesta di avere il visto di uscita dal Regno per poter poi prendere un aereo da Roma. Per sostenere l’istanza, pur non essendoci un nesso diretto, Otto richiamò il suo stato di salute ricordando i certificati medici già inviati e che lui stesso indicava come presenti nel suo fascicolo al Ministero e in quello della Questura di Padova, ma anche allegando un nuovo certificato ottenuto quel giorno stesso. Con l’esperienza diretta di due o tre anni di internamento, gli internati avevano imparato a conoscere la struttura e l’organizzazione delle istituzioni che gestivano le loro vite. Interessante notare che Otto imputava al suo stato di salute i trasferimenti dal vicentino a Piove, prima, e dalla Saccisica a Cittadella, poi, mentre si è visto come le autorità lamentassero i limiti del suo comportamento [75]. Nel trasmettere la richiesta al Ministero, Vittorelli espresse un parere favorevole [76] e un mese dopo anche da Roma arrivò il nulla osta, ma solo in coincidenza con l’aereo “e con esclusione di ogni sosta nella Capitale” [77]. In realtà non bastava. A metà aprile arrivò il parere del tenente colonnello Mario Bertacchi del Comando Supremo SIM, Sezione Bonsignore, che non riscontrò precedenti a carico dei Lederer e si rimise al parere del Ministero degli Affari Esteri [78]. Quest’ultimo scrisse cinque giorni dopo al Ministero dell’Interno dicendo che “nulla osterebbe all’uscita dal Regno”, aggiungendo però, in maniera sibillina, che “sul conto del Lederer si richiama precedente corrispondenza” ed in particolar modo quella del 20 settembre 1941 [79]. Come a dire, ci si ricordi della falsificazione dei documenti per entrare in Italia e, perché no, delle fantomatiche congiunte sovversive. Sul documento una scritta a mano: “no, per le note disposizioni restrittive”.

Le cose non volgevano al meglio per Otto che, dopo il responso negativo del Ministero, chiese ulteriori documenti per la sua pratica [80] e presentò una nuova istanza il 2 giugno 1943. L’immagine è quella di una burocrazia spiroidale che avanza, anche se dà la sensazione di ricominciare, che sembra dimenticare e riprende daccapo le pratiche, ma che sa richiamarle, che conserva una memoria numerica di rimando a documenti, date, disposizioni. Così, quando Otto ripresentò la domanda per ottenere il permesso di espatrio, il prefetto di Padova da una parte sapeva bene quale fosse la “precorsa corrispondenza”, dall’altra prendeva tempo inviandola solo il 10 luglio e rivolgendosi al Ministero in maniera asettica, come si trattasse di una prima comunicazione sull’argomento. In basso il documento riportava la riposta ministeriale scritta a mano che all’improvviso faceva scomparire il parere negativo del 4 maggio: “Si prega di disporre che qualora gli interessati in oggetto risultino in possesso di regolare passaporto e dei prescritti visti di transito, siano avviati alla frontiera che presceglieranno per l’uscita dal Regno, riferendo [81].

Si era mossa anche la DELASEM che a giugno comunicò di essere riuscita ad ottenere i visti spagnoli, portando così a termine tutte le pratiche necessarie, e ricordando che, una volta a Roma, i Lederer potevano partire per la Spagna in aereo entro pochi giorni [82]. Il 13 luglio provò ad esercitare una nuova pressione affinché il Ministero prendesse in esame il caso in oggetto [83]. Mancava solo il timbro ministeriale. Nell’ultimo documento disponibile, quello inviato dalla Prefettura di Padova il 20 settembre 1943, Vittorelli richiamava la ministeriale del 16 agosto. È probabile quindi che alla fine sia arrivato il tanto atteso visto, ma i Lederer si avviarono mentre Roma era in preda ai disperati spasmi di una resistenza che il 10 settembre dovette arrendersi ai tedeschi.

Conviene tornare, però, sull’ultima lettera di Otto, quella del 2 giugno perché val la pena evidenziare alcuni passaggi:

Non so quali siano le ragioni che abbiano determinato un tale rifiuto, tuttavia mi permetto di mettere in rilievo quanto segue: Già in Italia da circa due anni non posso né lavorare né guadagnare. Al contrario è pronto per me e per la mia famiglia un visto di emigrazione per l’America del Sud. Tale visto che è stato procurato, con considerevoli sacrifici, da mio fratello che trovasi già fuori, è a mia disposizione a Madrid. Da tempo malato, come risulta dalla documentazione in precedenza fornita, non ho qui la possibilità di dedicarmi al mio lavoro, e avessi il modo di formarmi una nuova vita riunendo, dopo tanti stenti e fatica, nuovamente la mia famiglia, insieme a mio fratello, potrei anche pensare seriamente alla mia salute che tante scosse morali e materiali ha subito. (…) formulo nuovamente la presente domanda (…). Confido che la mia pratica verrà con benevolenza riesaminata da cotesto On. Ministero, onde evitarmi le disastrose conseguenze morali e materiali che ne deriverebbero qualora io non potessi insieme alla mia famiglia emigrare. Non voglio neppure formulare una tale ipotesi che sarebbe per me dolorosa [84].

 

Siamo di fronte alla consapevolezza di un’alternativa irreconciliabile con il vissuto da internato: riunire la famiglia, ripensare a se stessi, alla propria vita, ricostruire. Consapevolezza della necessità di un’altra possibilità di esistenza e dell’esistenza di un mondo in cui realmente poter ridisegnare un futuro. Otto stava ponendo all’attenzione del governo fascista da una parte gli effetti della sua politica, sul piano morale e materiale, come affermò due volte, dall’altra l’unica salvezza a quella stessa politica. Un’altra occorrenza non è data né può darsi, non è immaginabile se non come portatrice di dolore e, come per molti altri, di morte. Le storie di internamento nei campi e nei comuni mettono al centro uno sguardo che, se non è comparabile con quello della deportazione e dello sterminio, non solo è un suo prossimo, ma rivendica la destabilizzazione, la depauperazione, la decadenza psicologica, la demarcazione di un limbo in cui si è invischiati ben sapendo che la vita è altrove.

A Roma i Lederer si nascosero in un appartamento di un amico italiano fino alla liberazione [85]. Successivamente risposero all’appello degli Stati Uniti per il progetto di evacuazione dei profughi verso Fort Ontario. Quando uscirono dal campo americano ad attendere i Lederer c’era Leo Lenski, il fratello di Otto [86], già citato in occasione delle consultazioni ministeriali. Non risulta essere mai stato internato in Italia e sicuramente era riuscito a partire per gli Stati Uniti in tempo. Leo portò i parenti a casa sua a New York, nel suo appartamento sulla West Seventyseventh street. Il quattordicenne Ivo disse alla stampa: “Ne è valsa la pena solo per essere qui” [87].

Quando il campo chiuse, Mira aveva 21 anni. È diventata ricercatrice medica, insegnante di scuola media e autrice di due libri. Sperava di scrivere un libro sull’esperienza ad Oswego su cui si è espressa con assoluta franchezza: “Per gli americani, ebrei inclusi, fu un’esperienza felice e particolare”, ma per chi l’ha vissuta “è stato un misto di dolore, delusione, frustrazione e con la debole speranza di rimanere negli Stati Uniti”. Sposata con un ebreo americano di terza generazione, ha sempre pensato che gli americani non potessero comprendere appieno l’orgoglio che lei provava nel vedere suo figlio laureato a Princeton [88]. Ivo John, cinque anni più giovane di Mira, autore, insegnante e storico, ha conseguito un dottorato di ricerca in russo e in Storia dell’Europa dell’Est a Princeton; ha insegnato a Princeton, Yale e Stanford e ha pubblicato molti libri. Oswego ha rappresentato per lui un luogo da cui “la feccia della seconda guerra mondiale” emerse e stabilì un record straordinario in termini di “vite piene, utili e gratificanti”. A differenza di Mira, egli considerava il campo come un’“esperienza positiva”. Come lei, però, riteneva che “solo uno straniero può veramente comprendere la natura del tronco dell’albero su cui è stato innestato. Solo una persona nata all’estero può veramente apprezzare quello che l’America è” [89].

Avvocato in Jugoslavia, Otto non ha più ripreso la sua professione negli Stati Uniti [90].

Il 26 giugno la commissione Dickstein interrogò Otto Lederer [91]. Dopo aver confermato l’intenzione di volersi stabilire negli Stati Uniti e di non voler tornare in Jugoslavia, Otto si sentì domandare se lui credesse nella forma di governo americana e se fosse disposto a difenderla in caso di necessità. Dopo aver ricevuto una risposta affermativa, Dickstein riuscì a chiedere ad Otto se credeva nel nazismo o nel fascismo. Ricevette in cambio un secco no. Rispondendo, poi, alle domande sulla famiglia, Otto evidenziò che “è solo per il bene dei miei figli, per il loro futuro, quella è la ragione per cui vorrei rimanere qui e il mio unico fratello è in America”. Proprio sul fratello aggiunse dei dettagli importanti per la ricostruzione delle scelte compiute da Leo e dallo stesso Otto: “Viveva nelle stesse circostanze in Italia, come un immigrato, come me, ma lui andò prima in Spagna e poi in Venezuela, e in Venezuela lui ha chiesto di andare negli Stati Uniti. Io avevo intenzione di fare la stessa cosa, e portai il mio permesso di lasciare l’Italia 2 giorni prima della capitolazione dell’Italia e allora era troppo tardi e quindi non ebbi più nessuna possibilità di venire qui, eccetto che su questo trasporto. Nel frattempo, mio fratello arrivò qui dal Venezuela in base alla quota di immigrazione, e adesso vive a New York (…)”. A quel punto Dolliver (rappresentante dell’Iowa nella Commissione di inchiesta) cominciò a fargli una serie di domande sul suo lavoro di avvocato, soprattutto per capire se avesse avuto contatti con il governo e se fosse stato giudice in qualche corte, al che Otto spiegò che era un avvocato privato in Jugoslavia e che non si era mai occupato di affari legati alla politica, ma solo a quelli commerciali. Poi Dolliver cominciò a chiedergli se il sistema jugoslavo si basava sul canone romano o su quello inglese e, visto che faceva riferimento a quello romano, se avesse avuto modo di studiare quello americano. Otto non aveva avuto modo di conoscere il sistema statunitense, ma ovviamente il punto era un altro: la famiglia si era lasciata alle spalle anni di difficoltà, il governo americano aveva saputo offrire ai profughi 18 mesi di concentramento nella patria della libertà e ora legava il loro ingresso ad una serie di domande, forse figlie della routine, certamente frutto della chiusura all’immigrazione decretata negli anni precedenti.

 

NOTE

[1] ACS, MI DGPS DAGR, A4 bis, b. 209, fascicolo “Lederer Otto fu Giuseppe e famiglia”.

[2] Ivi, 20 agosto 1941.

[3] Ivi, 6 settembre 1941.

[4] Ivi, 11 e 12 settembre 1941.

[5] Ivi, 11 settembre 1941.

[6] Cfr. Voigt, Il rifugio precario, vol. II., cit., pp. 241-292.

[7] Ivi. Si veda ad esempio il telegramma del Ministero dell’Interno del 30 ottobre 1941 inviato alla Legazione italiana a Zagabria e la comunicazione del 18 dicembre 1941 inviata da Spalato a Roma.

[8] Ivi, pp. 262-263.

[9] ACS, MI DGPS, A16 Stranieri ed ebrei stranieri AAGG (1930-1956), b. 15. A gennaio anche il prefetto di Spalato, Paolo Zerbino, aveva informato il Ministero: al momento dell’occupazione della Jugoslavia a Spalato c’erano 425 “persone di razza ebraica”; in seguito arrivarono 1921 rifugiati, quasi tutti croati, che provenivano dalla Serbia e dalla Croazia. Di essi 1095 furono internati in Italia, 224 sull’isola di Curzola – capoluogo, 272 sull’isola di Curzola in località Vallegrande. Altri 52 ebrei, considerati internati, si trovavano a Castelvecchio, Castel Vitturi, Castel S, Giorgio e Traù. Rimanevano a Spalato 713 ebrei compresi i 425 già residenti. Ivi, 15 gennaio 1942. Questa contabilità andava avanti da mesi nel tentativo di controllare la situazione. Già nell’agosto del 1941, Zerbino aveva avvisato il Ministero della presenza di 893 ebrei (170 della locale comunità israelitica, 362 residenti a Spalato con mezzi propri, 104 residenti a Spalato che avevano cambiato religione, 180 ebrei residenti a Spalato ma privi di mezzi e sussidiati dalla comunità ebraica, 51 profughi residenti a Castel Vitturi e Castelvecchio con mezzi propri, 26 residenti a Cursola, Lizza e Traù sempre con mezzi propri). 250 ebrei di quelli residenti a Spalato e provvisti di mezzi furono prelevati e inviati a Curzola; da 200 a 300 ebrei sarebbero stati trasferiti in Albania. Mentre quelli senza mezzi dovevano essere inviati in un campo di concentramento del Regno. Altri provvisti di mezzi di sussistenza avrebbero potuto essere avviati, su base volontaria, in un comune non militarmente importante. Ivi, 30 agosto 1941.

[10] Ivi, 22 luglio 1941. Una lettera sullo stesso argomento fu inviata il 24 giugno 1941 dall’UCII al Ministero (ivi).

[11] ACS, cit., f. “Lederer Otto fu Giuseppe e famiglia”, 12 settembre 1941.

[12] Ivi, 13 settembre 1941; telegramma della Questura di Padova del 14 settembre 1941.

[13] Ivi, 17 settembre 1941.

[14] In questa data fu sostituito dal Capo della provincia Primo Fumei.

[15] ACS, cit., 13 settembre 1941.

[16] Si veda la pagina dedicata ad Enego.

[17] Si veda la pagina dedicata a Lonigo

[18] ACS, cit., 21 settembre 1941.

[19] Il Governatorato della Dalmazia inviò una comunicazione riservatissima urgente ai Prefetti di Zara, Spalato, Cattaro sulla traduzione di 400 internandi comunisti a Lipari e 200 ad Ustica. ACS, MI, DGPS-DAGR, A16, b. 15, 3 novembre 1941.

[20] Ivi.

[21] ACS, cit., 23 settembre 1941.

[22] Ivi, 25 settembre 1941.

[23] ACS, cit., 26 settembre 1941. Indicato anche come Co del Panico.

[24] Ivi, 23 e 24 settembre 1941.

[25] Ivi, 28 novembre 1941.

[26] Si veda la pagina dedicata a Marostica.

[27] ACS, cit., 29 novembre 1941.

[28] Ivi, 30 dicembre 1941.

[29] Ivi, 20 gennaio 1942.

[30] Ivi, 24 gennaio 1942.

[31] Ivi, 5 febbraio 1942.

[32] Ivi, 16 febbraio 1942.

[33] Ivi, 1 marzo 1942.

[34] Ivi, telegramma del 7 marzo 1942.

[35] Ivi, 7 marzo 1942. Ministero dell’Interno a Prefettura di Padova.

[36] Ivi, 23 marzo 1942.

[37] Ivi, 30 marzo 1942.

[38] Ivi, 9 aprile 1942.

[39] Ivi, 4 maggio 1942.

[40] ACS, MI DGPS DAGR, A4 bis, b. 321, fascicolo “Schmetterling Ettel fu Mordko nata Engel”, 21 febbraio 1942.

[41] ACS, fascicolo Lederer, cit., 2 aprile e 30 maggio 1942.

[42] Ivi, 6 marzo 1942.

[43] ACPdS, fondo D487, f. “Ebrei”, sottofascicolo 12 “Oppenherin Lederer Rosa di Bela”, cit., 25 aprile 1942.

[44] Ivi, 26 aprile 1942.

[45] ACS, cit., 10 luglio 1942.

[46] Ivi, 31 agosto 1942.

[47] Ivi, 21 agosto 1942.

[48] Ivi, 9 settembre 1942.

[49] Ivi, 21 settembre 1942.

[50] ACPdS, cit., 21 settembre 1942.

[51] Ivi, 21 settembre 1942; ACC, Ebre internati, 21 settembre 1942.

[52] ACPdS e ACC, 24 settembre 1942.

[53] ACC, 2 ottobre 1942.

[54] Ivi, 24 ottobre 1942.

[55] Ivi, 10 ottobre 1942.

[56] Nel caso di Godiasco non è chiaro a quale comune facessero riferimento.

[57] ACC, 16 ottobre 1942.

[58] Ivi, 27 ottobre 1942.

[59] Ivi, 11 novembre 1942.

[60] Ivi, 24 e 25 novembre 1942.

[61] Ivi, 25 novembre 1942.

[62] Ivi, 7 dicembre 1942.

[63] Ivi, 2 gennaio 1943.

[64] Ivi, 17 gennaio 1943.

[65] Ivi, 18 gennaio 1943.

[66] Ivi, 9 aprile 1943.

[67] Ivi, 6 marzo 1943.

[68] Ivi, 21 gennaio 1943.

[69] Ivi, 4 febbraio 1943.

[70] Ivi, 7 febbraio 1943.

[71] Ivi, 6 settembre 1943.

[72] ACS, cit., 4 maggio 1943.

[73] Ivi, 20 settembre 1943.

[74] Ivi, allegato alla lettera del 2 giugno:  22.2.1943 Legacion de los Estados Unidos de Venezuela en Espana a Otto – lettera in spagnolo: “Ho il piacere di informarvi che ho ricevuto istruzioni per vistare a voi, a sua moglie Ruza e ai suoi figli Ivo e Mira, il rispettivo passaporto, dopo aver ottemperato ai requisiti legali”.

[75] Ivi, 13 febbraio 1943.

[76] Ivi, 24 febbraio 1943.

[77] Ivi, 27 marzo 1943.

[78] Ivi, 16 aprile 1943.

[79] Ivi, 21 aprile 1943.

[80] ACC, 12 maggio 1943. Podestà alla Questura di Padova. “Stamane si è qui presentato l’ebreo Otto (…) qui dimorante chiedendomi il rilascio di un certificato di buona condotta nonché altro di non accattonaggio da servirsene per le sue pratiche per il suo trasferimento all’estero. (…) non ha mai dato luogo a lagnanze. Prego pertanto autorizzarmi al rilascio dei certificati richiesti”.

[81] ACS, 10 luglio 1943; scritta in basso del 22 luglio 1943.

[82] Ivi, 22 giugno 1943.

[83] Ivi, 13 luglio 1943.

[84] Ivi, 2 giugno 1943. Corsivo aggiunto.

[85] Si veda l’intervista di Ivo Lederer presente su https://collections.ushmm.org/search/catalog/irn512737.

[86] Leo nacque nel 1895 a Zagabria. I genitori, Joseph Lederer (Zagabria, 1862-1908) e Sidonia Koritschan (Zagabria, 1873 – 1922) venivano da famiglie numerose. Joseph, figlio di Lazar Ladislau Lederer (ceco) e di Wilma Wilhelmina (ungherese) aveva undici fratelli (Leopold, Gabriel, Adolf, Bernhard, Max, Cecilia, Sofia, Regine, Sigmund, Sabina e Betty Honig). Sidonia, figlia di Leopold Koritschan (o Lavoslav Korican) e di Klara Deutsch aveva, invece, 4 fratelli (Alfred, Maximilian, Marianna, Hanny).

[87] Gruber, Haven, cit., pp. 245-246.

[88] Lowenstein, Token refuge, cit., pp. 179-180.

[89] Lowenstein, Token Refuge, cit., p. 180 e R. Gruber, Haven, cit., p. 259.

[90] Ivi, p. 180.

[91] Investigation, cit., p. 83.

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