Sentieri interrotti. Vite ricostruite. Olga Bleier, Eugenio Varnai e la famiglia Meneghello

Sentieri interrotti. Vite ricostruite.

Olga Bleier, Eugenio Varnai e la famiglia Meneghello*

di Antonio Spinelli

 

Accostandosi alle storie degli ebrei stranieri che si trovavano in Veneto durante il secondo conflitto mondiale e che furono soggetti alla negazione dei diritti, alla persecuzione, all’internamento e successivamente alla deportazione verso i campi di sterminio, è possibile comprendere i contesti che li spinsero a lasciare i Paesi di origine, i percorsi personali, le scelte dolorose e incerte che furono costretti a prendere, nonché gli effetti di tali decisioni a breve e a lungo termine.

Furono poco più di 1400 gli ebrei stranieri internati in Veneto, tra la fine del 1940 e il 1943, in circa 100 Comuni appartenenti a tutte le province [1]. Molti di loro riuscirono a mettersi in salvo, ma altri finirono nel vortice della Shoah e non tornarono da Auschwitz. Per la precisione, in Veneto furono arrestati e deportati 172 ebrei stranieri (il 12,21% di quelli internati). Di questi 26 sopravvissero e 1 fu liberato dal campo di Bolzano. Di conseguenza gli ebrei deportati e morti nei campi di sterminio furono 145. Non vanno dimenticati, però, 7 ebrei uccisi in Italia: 4 afferenti alla provincia di Vicenza (Shachne Wald, Peisach Wald e Marian Reicher uccisi alle Fosse Ardeatine; Leon Steinlauf ucciso dai fascisti dopo essersi unito alla Resistenza); 2 al Bellunese (Isidoro Amsterdamer e Lea Rosembaum, morti nell’eccidio avvenuto nei pressi dell’aeroporto di Forlì nel settembre 1944 [2]); 1 al Veronese (Rosa Kohn, morta nel campo di Fossoli). Si segnalano anche 5 ebrei morti per malattia durante l’internamento. In totale i morti furono 157, ossia l’11,15%. I sopravvissuti furono 1251, cifra corrispondente all’88,85% [3].

È in questo quadro che si inserisce anche la storia di Olga Bleier e di suo marito Jenö (Eugenio) Varnai, giunti nel 1941 in provincia di Vicenza. L’anno non è casuale perché molti degli ebrei internati arrivarono a seguito dell’invasione del Regno di Jugoslavia da parte dell’Italia e della Germania. Furono mesi decisivi per le migliaia di ebrei che vivevano in quei territori o che vi erano giunti in precedenza fuggendo dall’Europa centrale e orientale. Chi non veniva respinto e riusciva, in vario modo, a entrare nei territori controllati dagli italiani poteva nutrire la speranza di avere un destino diverso da quello delle violenze e della deportazione. Non essendo tollerabile la presenza di ebrei in una zona dai fragili equilibri, l’Italia decise in alcuni casi di respingerli, in altri di internarli nei campi di concentramento o nei Comuni. È questo passaggio che spiega ad esempio l’arrivo massiccio di ebrei stranieri alla fine di novembre del 1941 quando, con due convogli, furono condotti a Vicenza 250 ebrei: 50 partirono da Spalato il 20 e 200 il 24 novembre [4]. Tra gli ebrei presenti sull’elenco del secondo trasporto, troviamo al numero 152 [5] Eugenio Varnai, figlio di Ferdinando e di Elena Smetana, nato a Szeged (oggi in Ungheria) il 17 novembre 1906, autista. Subito dopo, al numero 153, fu indicata Olga Bleier, figlia di Mavro e di Malvina Grünwald, nata a Novi Vrbas (oggi in Serbia) l’11 novembre 1908, casalinga, guantaia. Per entrambi scrissero che si trattava di ex jugoslavi di origine croata. Da Spalato, dove si trovavano, furono portati con una nave a Fiume e da lì a Vicenza in treno. Dopo essersi presentati davanti al questore, i due coniugi furono assegnati all’internamento nel Comune di Malo.

Anche i Varnai, al cospetto delle autorità italiane, dovettero dichiarare i beni posseduti e se potevano mantenersi a proprie spese. Avere una disponibilità economica era, infatti, un requisito espressamente richiesto al fine di entrare in Italia, seppur come internato, ma tale indicazione di massima non era sempre rispettata. In un documento relativo a Malo e datato 12 dicembre 1941 [6], sui 23 ebrei indicati, 7 erano sprovvisti di mezzi, tra cui gli stessi Eugenio e Olga. In corrispondenza dei loro nomi furono quindi indicate le somme del sussidio dovuto: 8 £ al giorno per il marito, 4 £ per la moglie e 50 £ al mese per l’alloggio. Due settimane prima il podestà Antonio Marchioro aveva convocato proprio i sette ebrei non abbienti per elencare loro le previste prescrizioni, l’ultima delle quali, l’undicesima, esplicitava ciò che attendeva i trasgressori: «saranno punti a termini di legge o trasferiti in colonie insulari» [7].

Col tempo il numero di internati a Malo salì fino a raggiungere le 49 unità, di cui 38 jugoslavi, 6 austriaci, 3 polacchi e 2 romeni [8]. Malo fu uno dei 28 Comuni del Vicentino utilizzati per questa forma di internamento e tra quelli, come Canove di Roana, Camisano Vicentino, Enego, Lonigo, Posina, dove più alta fu la presenza degli ebrei stranieri.

Subito dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943, a fronte della subitanea fuga di quasi tutti gli internati, le autorità della zona di Malo diramarono le ricerche per fermare gli ebrei «allontanatisi per ignota direzione notte 13 14 corrente» [9]. Tra i ricercati figuravano anche Eugenio e Olga. In fuga verso la Svizzera o il centro-sud Italia, gli ebrei cercavano un riparo, mentre le questure italiane avevano dato disposizione di catturarli. Rispondendo ad un telegramma del 15 settembre inviato dalla Prefettura, il podestà di Malo assicurò che «arma carabinieri sta espletando indagini per rintraccio ebrei stranieri qui internati arbitrariamente allontanatisi questi ultimi giorni». Gli stessi carabinieri non tardarono a rendere noto il «massimo impegno per impedire ulteriori allontanamenti e per la ricerca di quelli già in fuga» [10]. Tale caccia agli ebrei in diversi casi portò i suoi frutti considerando che non solo furono catturati nelle zone limitrofe a quelle in cui furono internati, ma anche in regioni più lontane come le Marche o l’Abruzzo o al confine con la Svizzera. L’arresto significava essere condotti nei campi di concentramento approntati dalla Repubblica Sociale Italiana, tra cui i campi provinciali. Nel Vicentino fu istituito quello di Tonezza del Cimone che fu attivo per circa 40 giorni e in cui furono trattenuti gli ebrei stranieri fermati in provincia di Vicenza prima di essere consegnati alle SS [11].

I coniugi Varnai non subirono questo destino perché, grazie a degli aiuti e alle decisioni prese in quei frangenti, riuscirono a mettersi in salvo, ma tra gli stessi internati di Malo non tutti ce la fecero: Samuel Mangel e la moglie Sabine Schuskind, anziani e malati, furono arrestati, mentre il figlio Emanuel Max scampò all’arresto raggiungendo Roma [12].

Per quanto riguarda la presenza ebraica in generale, quindi sia quella straniera sia quella italiana, i numeri mostrano che 360 tra quelli nati in Veneto e altri 791 che si trovavano a vario titolo nelle province venete furono deportati. Il 15,6% sopravvisse [13].

Dopo la guerra anche per Eugenio Varnai e Olga Bleier si aprì il drammatico periodo della ricerca di informazioni sui propri cari. Anni prima i due avevano preso una strada diversa da quella dei parenti di Olga. Nel tornante storico, già menzionato, dell’invasione italo-tedesca della Jugoslavia, i Bleier si separarono. Alcuni rimasero nella zona di Zagabria dove la famiglia si era trasferita alla fine degli anni Venti, altri si trasferirono verso i territori controllati dagli italiani, altri ancora decisero di spostarsi verso l’Ungheria tentando in questo modo di allontanarsi dalla zona controllata dai tedeschi e dai croati. Con il senno di poi sappiamo quali furono le conseguenze delle singole decisioni. Ciò che va sottolineato è la difficoltà per gli ebrei di avere tutti gli elementi utili per conoscere e interpretare quanto stavano vivendo e le diverse direzioni prese dai membri della famiglia Bleier lo dimostrano. Ogni scelta fu a suo modo razionale, pensata e discussa, sapendo, questo sì, che la minaccia nazifascista allungava la sua ombra su tutta l’Europa.

Così, se Olga, la figlia maggiore, decise con Eugenio di raggiungere i territori controllati dall’esercito italiano, Vera Dvora, la secondogenita, e il marito Hinko Yitzkhah Gostl presero la decisione di unirsi ai partigiani. Entrambi morirono nei pressi del fiume Sutjeska [14]. Fu arrestato e ucciso a Zagabria nel 1941 il terzogenito, Avram Vladislav Laci. In quella situazione Katia, classe 1919, la più piccola dei cinque fratelli, si fece carico dei genitori, Mavro e Malvina, rispettivamente di 64 e 58 anni, della moglie di Avram, Rivka Aranka, e del loro bambino Wolf Volvili che aveva 2 anni. Katia li guidò nella fuga oltre il Danubio fino a giungere a Zenta [15]. Da lì Katia tentava di mantenere vivi i contatti con Olga [16]. Nel frattempo l’altro fratello, Geza, con sua moglie Karolin e i figli Ronald e George, si rifugiò sulla costa dalmata e da lì raggiunse via mare il sud Italia. Mentre Katia, i suoi genitori, Rivka e Wolf venivano arrestati e poi condotti ad Auschwitz [17], Geza e la sua famiglia riuscirono a far parte del progetto voluto dal presidente americano Franklin Delano Roosevelt che permise a 982 profughi, per lo più ebrei, di entrare negli Stati Uniti. Lì furono tenuti nel campo di Fort Ontario, ben oltre la fine della guerra, prima di essere restituiti alla libertà [18]. Del gruppo deportato ad Auschwitz sopravvisse solo Katia che dovette subire anche una delle marce della morte che la condusse fino al campo di Bergen Belsen. Il suo percorso verso l’Italia ed in particolare in direzione di Malo fu il frutto del tentativo, riuscito, di ricongiungersi con la sorella Olga, tornata nel Vicentino dopo la fuga con Eugenio verso il sud Italia avvenuta a seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943.

Alcuni documenti pubblicati dagli Arolsen Archives ci consentono di conoscere maggiori dettagli relativi alla storia di Eugenio e Olga. Si tratta di dati raccolti dall’Organizzazione internazionale per i rifugiati al fine di provvedere alle necessità più urgenti ma anche a quelle future di chi intendeva ricostruire la propria vita dopo la guerra e la Shoah [19]. Questi documenti sono preziosi sia perché confermano alcuni dati che già conosciamo sia perché possiamo ricostruire nel dettaglio i movimenti dei due coniugi.

Eugenio e Olga vivevano a Šabac (oggi in Serbia), dove lui lavorava come autista meccanico presso la ditta Bora Ristic & Milosevic. Il 10 aprile 1941 fu chiamato, come soldato, nel Regio esercito jugoslavo. Sei giorni dopo, a seguito dell’arrivo delle truppe italiane e tedesche, fu fatto prigioniero a Cetinje [20] e inviato a Spalato dove fu internato per tre mesi insieme alla moglie. Del successivo internamento a Malo si è già detto. È importante qui conoscere quale fu la loro via di fuga dopo l’armistizio. All’IRO Varnai dichiarò che da subito l’intenzione fu quella di dirigersi verso sud e di attraversare la linea del fronte, spinti dalla paura di essere catturati dai nazisti e deportati in Germania. Fuggiti il 14 settembre 1943, non senza difficoltà e utilizzando anche un treno, raggiunsero Maddaloni, in provincia di Caserta, il 5 ottobre [21]. Da quel momento e fino all’ottobre del 1945 Eugenio lavorò come autista meccanico per l’AJDC (American Jewish Joint Distribution Committee) che si occupava dell’assistenza degli ebrei. Nel marzo 1944 i coniugi, provenienti da Salerno, passarono a Santa Maria al Bagno, in provincia di Lecce, dove fu istituito un centro di accoglienza per gli ebrei. Successivamente furono spostati in diversi campi profughi quali quelli di Orma, Ancona e Bari. Il 1° luglio 1946 erano a Malo presso l’albergo Due Spade, dove si era stabilita anche Katia Bleier [22]. Malato di TBC, Eugenio rimase a Malo fino all’aprile del 1948 quando si recò a Milano per lavorare ancora per l’AJDC. Tre mesi dopo, però, a causa delle condizioni di salute, fu inviato al sanatorio di Merano dove rimase fino al 25 febbraio 1949 quando fu trasferito presso il sanatorio di Garbagnate. È lì che Eugenio si trovava quando rispose alle richieste dell’IRO. Nonostante il progressivo miglioramento, pensava di dover rimanere ricoverato altri 8-10 mesi. Tutte le spese mediche furono coperte dall’AJDC. In quel periodo Olga viveva a Milano, in una stanza sita in via Nerino 3, per la quale pagava 6000 £ al mese. Per fortuna aveva trovato un lavoro come insegnante di cucito per la ORT [23] che le assicurava uno stipendio mensile di 34.000 £.

Nell’aprile del 1951 ritroviamo Eugenio e Olga nel campo IRO di Bagnoli. Questo ulteriore spostamento era dovuto alle pratiche per l’emigrazione di cui spesso si occupava quel centro dell’IRO. A quel periodo, infatti, risalgono alcune schede predisposte al fine di favorire l’espatrio dei coniugi. I loro nomi sono associati a diverse destinazioni: USA, Brasile, Canada, Australia, Norvegia [24]. Evidentemente i piani cambiarono se i Varnai tornarono a Milano e poi nuovamente a Malo dove, alla fine di aprile del 1952, risiedevano in via San Bernardino 16 ossia presso la famiglia Meneghello. Appare evidente che la relazione tra Katia e Luigi Meneghello, sfociata nel matrimonio celebrato a Milano nel settembre 1948, e l’aiuto fornito dalla famiglia a Eugenio e Olga portarono questi ultimi a intraprendere la strada per ottenere un permesso di soggiorno a tempo indeterminato per rimanere in Italia. L’agognato documento arrivò solo il 9 agosto 1955.

A Malo Eugenio cominciò a lavorare come autista meccanico presso la Ditta Autotrasporti Meneghello, con una paga di 25.000 £ al mese, mentre Olga faceva la sarta, guadagnando mensilmente 8000 £. Pur se seguiti ancora dalla Croce rossa italiana e dallo Stato [25], nella vita dei Varnai si affacciarono due progetti: uno riguardava il lavoro e faceva riferimento all’acquisto di materiali e macchinari per l’installazione di un’officina di riparazione, di una sala lavaggio e di una pompa di benzina in associazione con la ditta Meneghello (ci fu anche la richiesta di un prestito di 1.000.000 £ al Fondo delle Nazioni Unite con relativi preventivi dell’ingegner Mario Ceccato), l’altro puntava all’emigrazione in Inghilterra (dove si erano trasferiti Luigi Meneghello e la moglie Katia). Essendo scarse le possibilità di ottenere i permessi per entrare nel Regno Unito, i Varnai decisero di continuare a costruire la loro vita nel Vicentino. A causa delle lungaggini burocratiche, Eugenio optò, in accordo con la ditta Meneghello, per un’altra attività legata alla creazione di una nuova linea di trasporto Torrebelvicino – Schio – Rocchette, della lunghezza di 16 km, che doveva servire gli operai dei Lanifici Rossi. Il progetto, autorizzato dal Ministero dei Trasporti il 1° febbraio 1957, prevedeva alcune corse feriali: due sull’intero percorso, tre per la tratta Schio – Rocchette e tre per quella Schio – Santorso.

Si comprende quindi che la vita, che si era spezzata sia perché avevano dovuto lasciare i loro luoghi di origine sia perché avevano perso i loro cari nella Shoah, quella vita che avevano tentato di ricostruire in provincia di Vicenza, pur nella consapevolezza di non poter mai ricomporre i frammenti delle loro esistenze, riprese a scorrere e ad acquistare un nuovo senso, anche con la vicinanza di Katia e Luigi Meneghello. Eugenio e Olga rimasero in Veneto fino alla morte avvenuta nel 1982 per il primo e nel 1985 per la seconda. Le loro tombe si trovano al cimitero ebraico di Verona e recano incisa la preghiera «Sia la sua anima legata nel fascio della vita» [26].

Non più un numero nella ricostruzione storica quantitativa, il nome di Varnai resterà per sempre legato a quello di Meneghello. Lo scrittore, infatti, usò lo pseudonimo di Ugo Varnai per scrivere saggi e articoli. Tra gli altri, molti furono i contributi inviati tra il 1952 e il 1961 da Reading, dove Meneghello si era trasferito per lavorare all’Università, alla rivista di Adriano Olivetti, «Comunità». Uno dei progetti più importanti fu quello relativo alla recensione del libro di Gerald Reitlinger, The final Solution. The Attempt to Exterminate the Jews of Europe, 1939-1945, uscito per Vallentine-Mitchell nel 1953 [27]. Meneghello analizzò a fondo il libro e pubblicò su «Comunità» tre lunghi articoli: Lo sterminio degli ebrei d’Europa (VII, 22, dicembre 1953, pp. 16-24), Lo sterminio degli ebrei d’Europa II. Auschwitz (VIII, 23, febbraio 1954, pp. 10-15), Lo sterminio degli ebrei d’Europa III. I risultati della soluzione finale (VIII, 24, aprile 1954, pp. 36-39).

Meneghello spiegò a Renzo Zorzi, curatore della rivista di Olivetti, gli intenti del suo lavoro:

[…] uno scritto documentato sui campi di annientamento tedeschi e sullo sterminio degli ebrei. Mi gioverò soprattutto di un esauriente volume appena uscito (G. Reitlinger, The final Solution; oltre 500 pagine di orrori espressi in cifre e documenti). Sarebbe importantissimo render noto al nostro pubblico queste cose, di cui i nazionalisti nostrani vanno dicendo che mancano le prove! […] Nella mia recente visita in Italia ho compiuto una piccola inchiesta in proposito tra amici e conoscenti (tipi del lettore medio) e mi sono reso conto che la conoscenza è poca e l’interesse estremamente vivo [28].

È indubbio che il suo interesse per la materia, oltre che di natura storica e socio-politica, non poteva essere dissociato dalla vita e dalla storia di Katia Bleier, così come dalla famiglia di quest’ultima personificata sia nella memoria di chi era scomparso sia nelle testimonianze di Olga ed Eugenio Varnai di cui Meneghello portava il nome firmando i suoi scritti.

Scrisse ancora a Zorzi il 15 marzo 1954, ossia dopo il terzo e ultimo articolo pubblicato su Comunità a proposito del libro di Reitlinger:

Nello scrivere questi che ti mando mi ha paralizzato l’impegno a non lasciarmi prendere la mano del sentimento – forse sai che mia moglie fu deportata a Auschwitz dall’Ungheria nel ’44 e perdette in questa prima selezione papà e mamma oltre a altri parenti (tra cui un nipotino di 4 anni) [29].

Meneghello evidenziò in altri momenti la reticenza da parte di Katia nel raccontare quanto aveva vissuto e spiegò nel contempo che per osmosi lui aveva in qualche modo assorbito il dolore della moglie e indirettamente anche quello di Olga e Eugenio che a sua volta aveva perso parte della sua famiglia nella Shoah.

Va altresì sottolineato l’altro intento di Meneghello, quello di rivolgersi a un «pubblico medio italiano» [30] che non conosceva quei fatti nonostante fossero stati pubblicati in Italia i primi libri di memorie di ex deportati per motivi razziali o politici. Era quindi importante «rinfrescare» i ricordi delle persone o portare alla loro conoscenza il complesso meccanismo della Shoah, tentando così di contrastare i nazionalisti che pretendevano che non ci fossero le prove. Si comprende dunque quanto possano essere attuali quelle lettere del 1953 e del 1954 e quegli articoli riletti, e studiati, al giorno d’oggi.

Di sicuro la vicinanza alla famiglia Bleier fu per Luigi Meneghello ciò che lo spinse ad affrontare, a «fare veramente i conti con la realtà ultima dei fatti, guardare in faccia il mostruoso insieme della cosa», come scrisse nella nota in limine di Promemoria [31], volume in cui furono raccolti gli articoli apparsi su «Comunità». Attraverso le storie degli ex internati in Veneto e in provincia di Vicenza e attraverso questo libro di Meneghello possiamo ricostruire quanto accaduto e allo stesso tempo riflettere sui meccanismi profondi della società, del potere e della macchina burocratica che hanno portato alla Shoah. Conoscenza e riflessione che non possono essere disgiunti dalla memoria e dal suo legame con il presente:

Tenere viva la memoria è forse il modo meno futile di opporsi alla minaccia di dover rivivere qualcosa di analogo, e apre uno spiraglio al pensiero che le sofferenze delle vittime non siano state del tutto invano [32].

 

* Nell’ambito degli eventi organizzati per il Giorno della Memoria 2022 da Biblioteca Bertoliana, Accademia Olimpica, ISTREVI, Teatro Comunale Città di Vicenza, Conservatorio Pedrollo, Comune di Vicenza, si è tenuto un incontro online dal titolo Vincoli spezzati … Due famiglie nella Shoah, con gli interventi di Gaetano Thiene, Maurizia, Guido e Alberto Dalla Volta, Luciano Zampese, Antonio Spinelli.

 

Note

[1] Ebrei stranieri in Veneto 1933-1945, a cura di Antonio Spinelli, «Venetica», a. XXXVI, n. 63 (2/2022), pp. 10, 26-27, 115 n. 3.

[2] Cfr. https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=4997.

[3] Cfr. https://www.internamentoveneto.it/centro-studi-internamento-deportazione/ebrei-stranieri-internati-in-veneto/.

[4] Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione generale pubblica sicurezza (1861-1981), Divisione affari generali e riservati, Archivio generale, Categorie permanenti, A16 stranieri ed ebrei stranieri, b. 15, f. Spalato (giugno 1941 – marzo 1943).

[5] È il numero riportato considerando anche i 50 ebrei presenti sul primo elenco.

[6] Archivio di Stato di Vicenza, fondo Questura, Internati civili ebrei, b. 5, f. 15 Malo, sf. Corrispondenza generale.

[7] Ibidem, Verbale del podestà di Malo sottoscritto dai sette ebrei e datato 27 novembre 1941.

[8] Cfr. https://www.internamentoveneto.it/centro-studi-internamento-deportazione/ebrei-stranieri-internati-in-veneto/ebrei-stranieri-internati-in-provincia-di-vicenza/biografie-degli-ebrei-stranieri-internati/malo/.

[9] ASVI, fondo Questura, cit.

[10] Ibidem.

[11] Si veda Antonio Spinelli, Il campo di concentramento provinciale di Tonezza del Cimone in Paolo Tagini, Le poche cose. Gli internati ebrei nella provincia di Vicenza 1941-1945, Sommacampagna (VR), Cierre-Istrevi, 2006, pp. 191-223.

[12] Cfr. i documenti presenti negli Arolsen Archives: https://collections.arolsen-archives.org/de/search/person/68166080?s=mangel%20emanuel%20max&t=2740261&p=1. Emanuel Max Mangel fuggì prima verso Firenze dove risulta presente il 24 settembre 1944 in via Curtatone. Circa un mese dopo era a Roma presso il campo profughi di Cinecittà da cui uscì per essere condotto in un sanatorio. Nei giorni della liberazione dell’Italia, si trovava presso l’albergo Raimondo, sempre a Roma, mentre a fine agosto era tornato a Malo ospitato dal professor Zambon. Rimase nel Vicentino fino ai primi di maggio del 1948 quando tornò a Roma dove fu assistito dalle organizzazioni che si occupavano dei profughi ed in particolare di coloro che chiedevano di emigrare in altri Paesi. Dopo qualche mese di permanenza a Milano nel 1950, alla fine di ottobre di quello stesso anno riuscì a salpare verso gli Stati Uniti a bordo della General Sturgis partita da Bremen-Grohn.

[13] Dati ricostruiti a partire da Liliana Picciotto, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia 1943-1945, Milano, Mursia, 2002.

[14] Il riferimento è alla drammatica battaglia del maggio-giugno 1943 tra le forze dell’Asse e i partigiani dell’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia.

[15] Zenta è il nome in ungherese. Oggi la città, con il nome di Senta, fa parte della Serbia.

[16] Cfr. https://lashoahdikatiaeluigimeneghello.it/la-shoah-di-katia-bleiere9d7cc/.

[17] Tutte le schede presenti nel database dello Yad Vashem sono state compilate da Geza Bleier. Cfr. https://yvng.yadvashem.org/index.html?language=en&advancedSearch=true&sln_value=Bleier&sln_type=synonyms&sfn_value=Geza&sfn_type=synonyms.

[18] Cfr. Antonio Spinelli, Vite in fuga. Gli ebrei di Fort Ontario tra il silenzio degli alleati e la persecuzione nazifascista, Sommacampagna (VR), Cierre, 2015. L’elenco delle persone giunte a Fort Ontario è riportato su https://www.internamentoveneto.it/wp-content/uploads/2020/12/48.-Lista-dei-rifugiati-presenti-a-Fort-Ontario.pdf.

[19] L’IRO, creato nel 1947 e in funzione fino al 1951, aveva sostituito l’Amministrazione delle Nazioni Unite per l’assistenza e la riabilitazione (UNRRA), costituita nel 1943 e guidata dagli Stati Uniti d’America. L’IRO si occupò in modo specifico del rimpatrio degli sfollati, dei profughi e dei sopravvissuti provenienti soprattutto dall’est Europa, al fine di favorire il loro re-insediamento in paesi disposti ad accoglierli.

[20] In italiano Cettigne, città del Montenegro.

[21] Le dichiarazioni di Eugenio Varnai all’IRO andrebbero integrate con le informazioni riportate nel fascicolo pubblicato a cura del Comune di Thiene, Le porte della memoria, 2018, pp. 44-45.

[22] Informazioni che troviamo anche nelle parole di Luigi Meneghello: «Lei era lì da poco tempo, da qualche settimana, però parlava spigliatamente l’italiano, il suo italiano un po’ eslege, ma vispo ed attraente. Era una sera serena, Katia abitava nell’alloggio sopra l’osteria delle Due Spade. Si saliva per una scala per raggiungere l’appartamento di Olga, da cui si apriva una finestra che guardava verso nord, e guardavamo il cielo stellato. E a un certo punto le ho chiesto: “Signorina Bleier voi credete in Dio?”, “No” ha detto lei. E io mi sono detto: “Questa qui la sposo”. Una ragazza piacente, vivace, straniera, culturalmente attraente (perché siamo esterofili), che viene da una famiglia di ebrei osservanti e non crede in Dio … Così io racconto la storia, l’ho raccontata tante volte a voce e la storia è diventata vera, Katia non l’ha mai contraddetta» (Luigi Meneghello, Opere scelte, a cura di Francesca Caputo, Milano, Mondadori, 2006, p. CXXIV.

[23] L’ORT (dal russo Obshestvo Remeslenofo zemledelcheskofo Truda ossia Organizzazione per il lavoro artigianale e agricolo), conosciuta come «Organizzazione Rieducazione Tecnica», era un’organizzazione ebraica internazionale nata nel 1880 a San Pietroburgo e che operò in Italia dopo la fine della seconda guerra mondiale.

[24] Inizialmente Eugenio Varnai espresse l’intenzione di emigrare negli Stati Uniti, ma solo con il miglioramento delle sue condizioni di salute. Quando gli fu chiesto se avesse invece intenzione di tornare in Jugoslavia, Eugenio oppose un secco «no», aggiungendo: «Non intendo vivere sotto il regime comunista, un regime che è contro la libertà». Inoltre disse di aver saputo dalla madre che a causa del fatto che non aveva fatto ritorno nel suo Paese di origine nel 1945, aveva perso tutti i suoi diritti come cittadino e che, in caso di rientro, sarebbe stato imprigionato per 5 anni. Aggiunse ancora: «Non ho nessuna esperienza personale del regime comunista che oggi domina in Jugoslavia, ma attraverso le notizie ottenute dai miei genitori che vivono in Jugoslavia, ho compreso che la vita in quel paese è molto difficile. […]». Anche il fratello gli parlò della situazione problematica. Al che gli fu chiesto perché il fratello non fuggisse all’estero ed Eugenio rispose: «Come può un uomo fuggire con la madre, la moglie e due bambini, e nelle presenti circostanze in cui la vita è così controllata dalla polizia segreta politica OZNA?». Pesava sicuramente il fatto che Eugenio sapeva di aver perduto la sorella, il cognato e il figlio, così come Olga aveva appreso della scomparsa dei suoi familiari, «eccetto una sorella che è ritornata e che si è sposata con un soggetto italiano e che vive in Italia».

[25] Come molti altri profughi, Eugenio Varnai era stato inserito nel programma di integrazione gestito dal servizio profughi stranieri dell’Amministrazione per le Attività Assistenziali Italiane ed Internazionali (AAI) incardinata nella Presidenza del Consiglio dei Ministri.

[26] Le 5 lettere riportate sulle lapidi sono T.N.TZ.B.H. corrispondenti alla frase «tehì nafshò (nafshàh per le donne) tzerurà bitzròr hachayìm», con un richiamo a 1 Samuele 25, 29.

[27] Si trattava del primo resoconto completo in inglese sulla Shoah e il secondo ad apparire in Europa dopo il lavoro di Leon Poliakov, Brèviaire de la haine, uscito nel 1951.

[28] Meneghello, Opere scelte, cit., p. CXXX.

[29] Robert S. C. Gordon (2012), ‘Fare testo in materia’: Ugo Varnai, Comunità, and the Holocaust in 1950s Italian, The Italianist, 32:sup1, pp. 202-203; Idem, Reti trasnazionali nella ricezione della Shoah. Meneghello, Varnai, Reitlinger in Dopo i testimoni: Memorie, storiografie e narrazioni della deportazione razziale, a cura di Marta Baiardi e Alberto Cavaglion, Roma, Viella, 2014, p. 29.

[30] Lo scrive in una lettera a Zorzi datata 1° maggio 1954: «Carissimo, eccoti un articolo su Hitler basato su una recensione del libro di cui ti parlai un mese fa a Milano […]. È un po’ lungo, ma mi sono reso conto che l’argomento non è molto conosciuto dal pubblico medio italiano, e penso che tu sia d’accordo che è importante rinfrescare la memoria alla gente». Cfr. la tesi di Maria Parisi consultabile su https://www.luigimeneghello.org/riservato/F_C_Critici/maria%20parisi-comunit%C3%A0-tesi%20I%20vol..pdf.

[31] Luigi Meneghello, Promemoria. Lo sterminio degli ebrei d’Europa (1939-1945), Bologna, Il Mulino, 1994, p. 7. Nel 2022 è uscita una nuova edizione della Rizzoli a cura di Luciano Zampese.

[32] Meneghello, Promemoria, cit., p. 10.

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