Storie – Piove di Sacco

Storie

Piove di Sacco

 

1. La famiglia Fullenbaum

 

2. Andrea Sterk

 

3. Chamades e Bieder

Tra gli ebrei stranieri internati a Piove di Sacco, la storia dei coniugi polacchi Berl Chamades e Marta Bieder, su cui non ci sono molte informazioni disponibili, presenta già in nuce diversi elementi che poi si ritroveranno nelle biografie degli altri internati.

Alla Questura di Roma dichiararono che venivano da Lubiana, dove si erano fermati per tre settimane, prima di entrare in Italia da Sussak il 27 maggio 1941. L’obiettivo era chiaro: ottenere i visti per trasferirsi negli stati Uniti d’America [1], cosa che spiega la loro presenza nella capitale. L’arresto del 31 maggio da parte della polizia di Roma segnò la fine del tentativo di costruirsi una possibilità di salvezza. I flussi migratori degli anni Trenta diventano ora “ingresso clandestino nel Regno” [2]. Dalle indagini non emerse nessun precedente a loro carico, ma “trattandosi comunque di stranieri di razza ebraica in condizioni di non poter lasciare, almeno per il momento, il nostro territorio, si propone che essi siano internati in un campo di concentramento” [3]. Tra le righe delle comunicazioni si legge il cambiamento avvenuto dopo l’entrata in guerra dell’Italia. Ormai gli ebrei stranieri erano definitivamente entrati nella categoria dei “pericolosi” e quasi automaticamente per loro si aprivano le porte dei campi di concentramento. D’altronde, in quel momento storico, la consegna di un foglio di via per l’espatrio o l’accompagnamento alla frontiera, metodo già inefficace negli anni precedenti, non avrebbero sortito nessun effetto. Come si vedrà con le storie successive, rimaneva certamente la possibilità di un permesso temporaneo al fine di sbrigare le pratiche per raggiungere il continente americano, ma quelle stesse pratiche burocratiche e le difficoltà frapposte dal Ministero portavano spesso in un cul de sac.

A questo punto, dopo averli “trattenuti nelle locali carceri giudiziarie”, il questore Palma non poteva che aspettare le decisioni del Ministero che nella quasi totalità dei casi, almeno nelle prime fasi, conducevano verso l’indicazione del campo di Ferramonti di Tarsia o di quello di Campagna. Il dispaccio telegrafico dell’8 luglio 1941 [4] informò della loro assegnazione al campo calabrese dove arrivarono il 17 luglio [5]. Lì, come in seguito a Piove di Sacco, ricevettero il sussidio dopo l’accertamento del loro stato di indigenza da parte delle autorità.

La permanenza nel campo non durò a lungo perché poco più di un mese dopo arrivò il trasferimento in provincia di Padova [6]. Dopo la consegna del foglio di via, avvenuta la sera dell’11 settembre [7], che conteneva l’ordine di presentarsi entro tre giorni alla Questura di Padova, Berl e Marta si presentarono davanti al prefetto il 14 per sentirsi notificare l’internamento a Piove di Sacco [8] ed il regolamento a cui dovevano sottostare. Sul biglietto del treno che li avrebbe condotti da Padova a Piove una voce era dedicata alla “qualità delle persone che viaggiano” e l’annotazione accanto recitava “stranieri per essere internati” [9].

Degli oltre due anni vissuti a Piove di Sacco restano una serie di annotazioni sul sussidio riscosso mensilmente [10] ed uno scambio di comunicazioni tra il podestà e la Prefettura, che accertava per Marta la necessità di cure presso la clinica oculistica di Padova. Il permesso fu concesso un mese dopo, salvo venire a sapere il giorno seguente che l’internata non aveva più bisogno di cure [11]. Questo è un elemento diffuso nella quotidianità degli internati, stretti tra le necessità di tutti i giorni e i tempi della burocrazia onnipresente e vigile, ma difficilmente celere nel disbrigo delle pratiche se non su argomenti particolarmente sensibili.

Il 18 ottobre 1943 i coniugi si allontanarono da Piove facendo perdere le loro tracce. Diretti a sud, percorso scelto da molti internati come si vedrà meglio con le storie successive, arrivarono a Bari mettendosi in salvo.

Un punto che non è presente nella documentazione sugli altri ebrei stranieri è quello concernente le tessere dell’abbigliamento che erano loro fornite dalla DELASEM e dalle quali venivano tolti i punti in base agli indumenti inviati. Lo apprendiamo da una lettera di Lelio Vittorio Valobra, presidente dell’associazione di assistenza ebraica, a cui evidentemente i coniugi si erano rivolti non avendo altre possibilità e altri mezzi [12]. L’unicità del documento non sta nell’aiuto dato agli ebrei stranieri, attestato dalle numerose comunicazioni e ricevute di versamenti effettuati in molte province italiane, quanto nell’utilizzo di una tessera e di un preciso regolamento che risale agli inizi del 1942. Il 30 gennaio, infatti, una nota della Regia Questura di Padova avvisava i podestà di Montagnana, Piove, Abano, Mestrino e Monselice [13]:

(…) il Ministero delle Corporazioni è venuto nella determinazione di concedere la carta di abbigliamento alle persone assegnate a colonie di confino ed agli internati nei campi di concentramento e nelle località d’internamento. Il rilascio verrà effettuato dai comuni dove dette persone trovansi confinate od internate. Resta inteso che la somministrazione gratuita degli indumenti ai confinati ed agli internati bisognosi è subordinata al distacco dei relativi tagliandi delle carte degli interessati e tali tagliandi dovranno essere inviati al Ministero tramite questo ufficio. Si precisa però che in un primo tempo dovranno essere inviate solo le proposte rigorosamente istruite circa le concessioni gratuite di indumenti o calzature ai confinati od internati bisognosi – in un secondo tempo – qualora il Ministero concederà gli oggetti richiesti, dovranno essere rimessi i tagliandi della carta d’abbigliamento corrispondenti agli oggetti richiesti.

Con un linguaggio perfettamente in linea con i dettami della macchina organizzatrice delle vite degli internati, il questore dava quindi atto che il governo, a distanza di un anno e mezzo dall’inizio delle misure di internamento in Italia, aveva dovuto optare per una soluzione all’annoso problema del mantenimento delle migliaia di prigionieri nelle mani dello Stato. Il sussidio, infatti, era palesemente inadeguato a coprire i fabbisogni degli internati che spesso scrivevano per ottenere un aumento della quota prevista o per lavorare. Una situazione, quella delle spese legate all’internamento, che può essere messa in correlazione con le contraddittorie decisioni del governo fascista sospeso tra respingimenti alla frontiera, ingressi concessi solo a quelle persone che potevano dimostrare di potersi mantenere senza l’aiuto statale e l’enorme pressione, soprattutto nei territori dell’ex Jugoslavia, degli ebrei profughi che entravano in parte legalmente nei confini italiani.

Nel giro di pochi giorni la Questura tornò sull’argomento “concessioni di vestiario e calzature ai confinati ed internati bisognosi”, entrando nel meccanismo che avrebbe dovuto sovrintendere alle operazioni. Rivolgendosi agli stessi podestà, il questore espose la catena di controllo e i passaggi da seguire [14]. L’incredibile e farraginoso ingranaggio previsto era lo specchio di una burocrazia che attraverso meccanismi simili inondava gli uffici centrali e periferici di comunicazioni, lettere, fonogrammi, telegrammi, urgentissime, veline in uno spasmodico moltiplicarsi di uno sguardo poliziesco che si soffermava su tutti gli aspetti della vita quotidiana, dagli spostamenti alle frequentazioni, dalla corrispondenza alle condizioni di salute, avvitandosi in un vortice che rallentava la macchina governativa, in tempo di guerra, ma non se ne curava, esercitando tutta la sua forza emanata da una distanza dove si pensava fosse presente qualcuno, il solo, che conosceva bene il senso di tutto l’agire direzionandolo e questo bastava ad acquietare le coscienze, a far procedere, seppur di un millimetro, l’ingranaggio e, infine, a staccare un tagliando.

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NOTE

[1] ACS, MI DGPS DAGR, A4 bis, b. 71, fascicolo “Chamades Berl Zwass fu Pinkus”, Ministero dell’Interno alla Questura di Roma. Nel fonogramma che certificava l’arresto dei due coniugi, veniva indicato l’arresto anche di altri due ebrei polacchi: Grossi Salamon di Lek, nato a Rozniatow il 12 maggio 1892, e Agatstein Karoline in Fleischacker fu Kerman nata a Budapest il 25 luglio 1901. La DGPS aprì un fascicolo sia per Chamades sia per Bieder, ma i documenti sono pressoché identici. In un documento dell’Archivio comunale di Piove di Sacco e per la precisione nel modulo “Soggiorno degli stranieri”, compilato il 15 settembre 1941, il Podestà annotò che Cahamdes si trovava in Italia dal 3 maggio. Inoltre scrisse che Berl era autista in livrea.

[2] Ivi, foglio del Servizio Centrale di identificazione della Scuola Superiore di Polizia, datato 15 giugno 1941.

[3] Ivi, 21 giugno 1941. Regia Questura di Roma al Ministero dell’Interno – DGPS.

[4] Ivi, 8 luglio 1941. Ministero dell’Interno alla Questura di Roma e p. c. al Prefetto di Cosenza.

[5] Ivi, 17 luglio 1941. Il direttore del Campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia al questore di Roma e p. c. al Ministero dell’Interno e al questore di Cosenza.

[6] Ivi, 23 agosto 1941. Ministero dell’Interno alla R. Prefettura di Cosenza  e p. c. alla R. Prefettura di Padova, al questore di Roma e al direttore del Campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia.

[7] Ivi, Telegramma del direttore di Ferramonti alla Prefettura di Padova.

[8] Ivi, R. Prefettura di Padova al Ministero dell’Interno e p. c. al direttore di Ferramonti.

[9] Ivi, biglietto ferroviario del 12 settembre 1941.

[10] Nel sottofascicolo “Chamades Berl”, rinvenuto nel fascicolo “Ebrei” del fondo D487 dell’Archivio Comunale di Piove di Sacco, i due coniugi risultano sussidiati per 19 giorni del mese di settembre del 1941 e fino all’agosto del 1943.

[11] ACS, cit., 10 e 20 febbraio 1942 Prefettura di Padova al Ministero dell’Interno; ACPdS, cit., 5 febbraio 1942 Podestà di piove alla Prefettura di Padova, 5 marzo 1942 Prefettura di Padova a Podestà di Piove di Sacco e 6 marzo 1942 Podestà a Prefettura.

[12] ACPdS, cit., 29 marzo 1943 Comunicazione della DELASEM al Podestà di Piove di Sacco.

[13] Ivi, fascicolo “Alloggi internati 1941 – Corrispondenza elenchi”. L’oggetto della missiva del 30 gennaio 1942 era “Forniture di vestiario ai confinati ed internati bisognosi”.

[14] “Le proposte rigorosamente istruite devono essere indirizzate alle Prefetture che a loro volta le trasmettono al Min. Int. Div. AGR sez III Roma. Le Prefetture, ricevendo per conoscenza le lettere che autorizzano la Scuola Tecnica di Polizia a spedire gli indumenti specificatamente indicati, ne daranno comunicazione ai destinatari, citando gli estremi delle lettere di concessione. Al ricevimento del pacco vestiario le direzioni delle Colonie o dei campi di concentramento, i Podestà o i Comandi dei CCRR provvederanno a staccare dalle carte individuali d’abbigliamento degli interessati i punti corrispondenti agli oggetti forniti annullandoli con timbro o con matita copiativa ed  incollandoli su un foglio sul quale verrà apposta la seguente dicitura: ‘Si dichiara che i qui uniti numero … punti corrispondenti agli oggetti ricevuti e consegnati sono stati staccati annullandoli dalla carta individuale d’abbigliamento n. del confinato (od internato) – cognome, nome, paternità. Data … Il Direttore della Colonia (o del Campo di Concentramento) oppure il Podestà oppure il Comandante della Stazione CCRR. I fogli con i punti annullati e la dichiarazione suddetta dovranno essere trasmessi per raccomandare a questo Min. Dir. Gen. della P. S. Divisione GCF sez III direttamente dalle Direzioni, dai Comuni, dai Comandi destinatari dei pacchi vestiario, citando gli estremi delle lettere ministeriali con cui furono autorizzate le spedizioni. Si riporta qui di seguito lo specchio dei punti corrispondenti a ciascun oggetto di normale distribuzione ai confinati ed internati bisognosi: Abito completo punti 75, Pantalone 25, Cappotto 80, Solo giacca 40, Panciotto 10, Camicia 10, Mutande non di maglia 6, Maglie o mutande pesanti incluse felpe da oltre 250 gr. punti 16, da 101 a 250 gr. punti 10, Scarpe tipo militare 65, Berretti senza punti”. Ivi, 31 gennaio 1942.

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4. Israel Maurer e Cornelia Kohn

L’11 settembre 1940, Arturo Bocchini, capo della Polizia, si occupò di internare a Ferramonti 302 ebrei detenuti nelle carceri di Napoli [1]. Nella scheda personale preparata all’uopo per questo gruppo di prigionieri, si precisava che il singolo internando era stato “inviato in Italia dal Governo della Libia insieme ad altri 302 ebrei diretti inizialmente nel Thailand e che non hanno potuto proseguire” [2]. Il prefetto di Napoli, il 20 settembre, diede seguito all’iter e avvisò il Ministero di aver predisposto l’invio del gruppo nel campo calabrese [3].

Perché quegli ebrei si trovavano in Libia? Erano realmente diretti in Thailandia? Come arrivarono a Napoli? Allo stesso modo del cosiddetto “gruppo di Rodi” di cui parla anche Marco Babad, i 302 ebrei facevano parte dell’aliyà bet, l’immigrazione in Palestina che trovava l’opposizione della Gran Bretagna e che per questo dovette trovare strade indirette e illegali per condurre gli ebrei in salvo. In questo contesto l’indicazione del “Thailand” che le stesse autorità italiane riportarono sui documenti, è evidentemente un depistaggio per evitare che il progetto naufragasse prima ancora di iniziare. L’indicazione di stati asiatici era, infatti, diventata una prassi dietro la quale nascondere la reale meta del viaggio [4]. La testimonianza di Leo Rosenberg conferma questa interpretazione: “Ufficialmente la meta era il Siam, ed all’uopo i passeggeri erano provvisti di un visto di transito per l’Italia ed un visto d’ingresso nel Siam, procurato loro da compiacenti consolati contro il pagamento di notevoli somme” [5].

Dopo il fallimento di un viaggio preparato per la metà di marzo e che doveva fare scalo a Rodi, gli organizzatori [6] decisero di modificare i piani e di predisporre una tappa a Bengasi dove una nave greca avrebbe dovuto occuparsi del trasbordo e della tratta fino alla Palestina. Partiti da Siracusa a metà maggio, quando arrivarono a Bengasi, “vennero ricevuti con entusiastica ospitalità dagli ebrei lì residenti che li accolsero nelle loro case e li circondarono di attenzioni secondo le usanze orientali” [7]. L’iniziale speranza si tramutò in completa disillusione quando il gruppo capì che la nave greca non sarebbe mai arrivata [8]. Fu così che quegli ebrei, prevalentemente austriaci, tedeschi e polacchi che in precedenza si erano fermati per lo più a Trieste, si ritrovarono in un limbo. Il governo fascista, dopo l’entrata in guerra, predispose per loro le stesse misure che stava adottando in Italia. Di conseguenza li arrestò e il 26 giugno li raccolse nella caserma Torelli “da dove essi furono dopo alcuni giorni portati a gruppi in Questura per essere fotografati di faccia e di profilo ed anche per lasciare le loro impronte digitali – anche dei bambini – come si trattasse di delinquenti comuni” [9]. In seguito furono spostati in una baraccopoli. A fine agosto furono imbarcati sul piroscafo Esperia che, scortato da due cacciatorpediniere, si diresse verso Napoli. Giunti il 29 agosto 1940, per loro si aprirono le porte del carcere di Poggioreale, dove rimasero per tre settimane, prima del trasferimento in treno a Ferramonti di Tarsia.

Quasi il 20% del “gruppo di Bengasi” fu poi internato nelle province del Veneto: 5 nella provincia di Belluno, 3 nel padovano, 6 nel rodigino, 11 nel trevigiano, 4 nel veronese e 30 nel vicentino [10]. Tra loro Israel Maurer e sua moglie Cornelia Kohn che, meno di un anno dopo, alla fine di agosto del 1941, furono messi nelle condizioni di scegliere una provincia per l’internamento libero e, esattamente come i Fullenbaum, scelsero Udine e Padova. Il Ministero dispose, infine, che i due fossero assegnati al padovano [11]. L’11 ottobre la Regia Prefettura di Padova li destinò a Piove di Sacco [12] dove arrivarono due giorni dopo, stabilendosi in via San Nicolò, presso i Salvagno. Sul modulo “Soggiorno degli stranieri n. 16”, compilato davanti al podestà di Piove, il sarto Israel e la casalinga Cornelia, rispettivamente di origine polacca e cecoslovacca, dichiararono che da Vienna erano arrivati in Italia il 15 settembre 1938, stabilendosi a Trieste [13]. Nel comune della saccisica percepirono il sussidio, ma Israel tentò anche di trovare un lavoro, cosa inizialmente vietata dal regime fascista che decise poi di andare incontro alle richieste che giungevano dalle varie zone di Italia in cui erano stato manifestate difficoltà nel reperire manodopera durante la guerra. Si cercò così una formula per mediare tra le esigenze lavorative e lo statuto di internati. A cambiare la situazione fu una circolare del Ministero dell’Interno, datata 5 luglio 1942 [14], e diretta alle Prefetture del Regno e alla Questura di Roma. Prima di capire quali furono i provvedimenti presi, è importante seguire il ragionamento che stava alla base e che fu esplicitato in quella stesse sede. Nella circolare si evidenziava che sulle migliaia di persone internate in Italia, solo qualche centinaio, a causa delle restrizioni che lo stesso governo aveva imposto, avevano un lavoro. Attraverso questo quadro da cui emergono sia aspetti quantitativi sia qualitativi delle forme d’internamento, il Ministero giungeva a spiegare cosa lo spingeva a modificare il suo atteggiamento:

(…) sia per evitare che i predetti trascorrano nell’ozio il periodo di confino e dell’internamento sia perché essi, col ricavato del loro lavoro, possano, con meno difficoltà, far fronte alle esigenze della vita, e tenuta pure presente l’attuale scarsezza della mano d’opera per lo stato di guerra, non ha nulla in contrario che i confinati politici e gl’internati nei comuni, compresi gli ebrei, siano, a richiesta, autorizzati a lavorare purché non danneggi la mano d’opera locale e sempre che gl’internati ed i confinati stessi diano affidamento di non abusare dell’autorizzazione concessa in relazione alle limitazioni loro imposte dal regime del confino e dell’internamento [15].

Tre, dunque, le motivazioni addotte. Il problema dell’ozio, indotto dalle leggi razziali e dalle stesse misure restrittive volute dal regime fascista, era posto prima di tutto dalla base, nel senso che in molti comuni, sia da parte di singole persone sia degli organi periferici del PNF, si lamentava la presenza degli ebrei stranieri a cui venivano concesse troppe libertà, che non facevano nulla mentre i figli della patria morivano al fronte, che fraternizzavano con i poveri e in fondo ottusi concittadini che non capivano la portata della rivoluzione fascista. I documenti relativi alla provincia di Padova non fanno riferimento a questi aspetti quanto quelli di altre province [16], però l’unico documento che ruota attorno a questo argomento è estremamente significativo. Il 24 febbraio 1942, poco più di due mesi prima della ministeriale dedicata al lavoro degli internati, la Questura di Padova, scrivendo a tutti i podestà e ai comandi delle stazioni dei CC. RR. delle città militarmente importanti quali erano Abano, Monselice, Mestrino e Montagnana, riportava una circolare ministeriale:

Comunicasi che è pervenuta notizia che alcuni confinati od internati in comuni, alloggiati in alberghi, restano fino a tarda sera nelle sale di mensa o di trattenimento, conducendo tenore di vita da turisti; i predetti inoltre frequenterebbero esercizi pubblici senza alcuna limitazione di orario. Tale stato di cose ha avuto sfavorevoli ripercussioni nelle popolazioni delle località d’internamento. Premesso quanto sopra, si prega di disporre rigorosi accertamenti in merito e d’impartire categoriche istruzioni perché siano intensificate le misure di vigilanza nei confronti degli internati e dei confinati, ribadendo l’obbligo per essi di condurre un tenore di vita ritirato conforme al loro stato di sottoposti a provvedimenti di polizia, di non frequentare abitualmente esercizi pubblici o comunque di non trattenervisi oltre il necessario, e di non provocare col loro comportamento reclami da parte della popolazione del comune dove si trovano, con comminatoria, in caso di inottemperanza, di trasferimento in campi di concentramento od in colonie insulari. Ad evitare gli inconvenienti di cui sopra, è necessario che gli internati ed i confinati, in linea di massima, alloggino in camere mobiliate e non in alberghi; qualora ciò non sia possibile per deficienza di alloggi, le autorità di PS dovranno esercitare una continua, efficace vigilanza perché gli internati ed i confinati ottemperino rigorosamente alle prescrizioni di cui sopra [17].

A questo punto diventa ancora più chiaro che tenere occupati gli internati poteva avere un risvolto anche sui loro atteggiamenti. D’altronde le quasi concomitanti precettazioni al lavoro, di cui si è parlato, andavano nella stessa direzione, oltre che in quella dell’ulteriore sottomissione e umiliazione della “razza ebraica”.

Gli altri due motivi indicati dal Ministero sono un’ammissione indiretta delle proprie difficoltà, se non dei propri fallimenti in materia di politiche economiche e del lavoro. Specificare che gli internati, grazie al lavoro, potevano “far fronte alle esigenze della vita”, significava confessare l’impossibilità di vivere soltanto con il sussidio concesso, quando accadeva, dal potere centrale. Non solo. Si stava dicendo che lo stesso stato avrebbe volentieri fatto a meno di elargire i sussidi che pesavano sui conti generali. Non a caso nella comunicazione del 5 luglio, il Ministero specificava che “gli internati, tra sussidio giornaliero e salario, non potranno ricevere più di quanto percepisce la mano d’opera locale. Perciò il sussidio sarà ridotto o sospeso in modo che non superi il guadagno degli altri lavoratori”. Un modo per non creare critiche da parte degli italiani occupati, ma anche per diminuire le uscite.

Anche il terzo motivo, “l’attuale scarsezza della mano d’opera per lo stato di guerra”, significava prendere atto della situazione economica e lavorativa. D’altronde erano spesso gli stessi datori di lavoro o i comuni a chiedere al Ministero di poter assumente gli ebrei internati. L’apertura nei confronti di questi ultimi veniva però chiarita in quello stesso documento: “Gl’internati ebrei potranno naturalmente essere autorizzati ad occuparsi soltanto in lavori per i quali per le disposizioni vigenti non sussista divieto. Essi pertanto non potranno esercitare attività professionali vietate agli appartenenti alla razza ebraica” [18]. Ciò comportava, per la maggior parte degli internati, rinunciare alle proprie inclinazioni, alle esperienze pregresse e agli studi, e votarsi a ciò che offriva il territorio. Più fortunato, se così si può dire, fu Israel Maurer che trovò lavoro presso la sartoria di Luigi Rosin, verso la fine di agosto del 1942, per 20 £ al giorno, dopo apposito permesso ricevuto dalla Questura che a sua volta si assicurò un nulla osta da parte dei competenti sindacati. L’impiego durò poco poiché il 9 settembre lo stesso Rosin dichiarò che Maurer non era più alle sue dipendenze [19].

Per quanto riguarda il resto del periodo d’internamento, le vicende dei due coniugi restituite dai documenti non si discostano da quelle di tutti gli altri internati, a partire dai problemi di salute. C’è un altro aspetto che spesso è possibile rintracciare nella documentazione: la richiesta di spostarsi in altri comuni per far visita a dei parenti a loro volta internati. A Malo, in provincia di Vicenza, vivevano, infatti, Salomone, il fratello minore di Israel, anche lui sarto, con sua moglie Carolina Balsambaum e il figlio Fritz, nato nel 1935 [20]. Partiti per Piove di Sacco il 13 luglio 1943, con un permesso di 5 giorni, tornarono a Malo il 19 [21].

Salomone e la sua famiglia fuggirono dal vicentino il 14 settembre 1943. Nel novembre 1944 si trovavano a Bari e poi giunsero a Santa Croce [22]. I Maurer di Piove di Sacco, invece, non scelsero di dirigersi verso sud. Da alcune testimonianze raccolte dal vice-sindaco di Piove di Sacco [23], risulta che rimasero nascosti nell’ossario del cimitero di Piove. Inoltre, da tre documenti del 4 settembre 1945 si apprende che i Maurer si trovavano a Piove di Sacco e chiesero, come molti ebrei stranieri fecero dopo la guerra, un documento che attestasse il loro internamento. In queste dichiarazioni i sindaci di solito inserivano il periodo d’internamento e i dati sui sussidi percepiti. Si tratta di attestazioni che normalmente servivano agli ex internati per potersi poi rivolgere alle autorità italiane o ad altri enti, come il JDC americano, per ricevere un aiuto economico sia a copertura del periodo di clandestinità sia per il primo dopoguerra. Nel caso dei Maurer, nei tre documenti è indicato che il sussidio era stato erogato dal 1° dicembre 1941 al 17 agosto 1943, ma per quanto riguarda la residenza a Piove di Sacco non c’era una data conclusiva, anzi in due documenti si sottolineava che erano “qui dimoranti dal 13 ottobre 1941” e in uno che erano “tutt’ora qui dimoranti” [24].

È interessante notare, infine, che dopo la guerra i Maurer si stabilirono a Piove di Sacco. Il foglio di famiglia, aperto il 15 aprile 1952 e facente parte del registro di popolazione di Piove di Sacco, li vede residenti in via Garibaldi e ne segnala anche la morte avvenuta il 13 febbraio 1963 per Israel e il 31 gennaio 1968 per Cornelia [25].

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NOTE

[1] ACS, MI DGPS DAGR, A4 bis, b. 236, fascicolo “Maurer Israel”, 11 settembre 1940. Telegramma di Bocchini al Prefetto di Napoli e p. c. al Prefetto di Cosenza e al Direttore del campo di concentramento di Ferramonti – Comune di Tarsia. Nel messaggio il capo della polizia avvertiva che due dei 302, Irene Weisz e Meta Kanner, rimasero a Napoli, la prima per ulteriori accertamenti, la seconda perché non era nelle condizioni di mettersi in viaggio.

[2] Ivi, 15 settembre 1940. Nella parte bassa del documento si fa riferimento al fascicolo “ebrei stranieri comitive dirette nel Siam”.

[3] Ivi, 20 settembre 1940. Copia del telegramma del prefetto di Napoli al Ministero dell’Interno e p. c. al questore di Cosenza e al campo di concentramento di Ferramonti.

[4] Si veda Voigt, Il rifugio precario, vol. I, cit., pp. 364-365. Voigt fa riferimento alla Cina come luogo di destinazione. Spesso queste navi facevano tappa a Rodi prima di proseguire. Sul “gruppo Bengasi” si veda anche Voigt, Il rifugio precario, vol. II, cit., pp. 30-31 e 203.

[5] Si veda CDEC, fondo Israel Kalk, VII Testimonianze e documentazione, Ricordi di Leo Rosenberg (http://digital-library.cdec.it/cdec-web/viewer/cdecxDamsHist006/IT-CDEC-ST0006-000095#page/1/mode/1up).

[6] Secondo Voigt si tratta dello stesso organizzatore del fallito viaggio di metà marzo, la Italviaggi. Voigt, Il rifugio precario, vol. I, cit., pp. 364-365. Nella testimonianza di Leo Rosenberg si parla della motonave “Trieste” della Compagnia di navigazione “Tirrenia”.

[7] Voigt, Il rifugio precario, vol. I, cit., p. 366. Leo Rosenberg aggiunse che “in un secondo tempo sono però intervenute le autorità militari locali sistemando i profughi in alberghi”. CDEC, fondo Kalk, cit.

[8] Secondo Voigt il mancato arrivo della nave potrebbe essere addebitabile alle manovre belliche iniziate nel Mediterraneo. Voigt, Il rifugio precario, vol. I, cit., p. 366.

[9] CDEC, fondo Kalk, Leo Rosenberg, cit.

[10] Per la provincia di Vicenza i comuni interessati furono Arsiero ed Enego con 8 internati, Brendola con 6, Albettone e Lonigo con 4. Si veda https://www.dalrifugioallinganno.it/ e http://www.annapizzuti.it/pdf/gruppo.php?g=1.

[11] ACS, fascicolo Maurer, cit., documento del 24 agosto 1941.

[12] Ivi, 11 ottobre 1941. Regia Prefettura di Padova al Ministero dell’Interno – DGPS, DAGR e p. c. al Direttore del Campo di Concentramento di Ferramonti di Tarsia.

[13] ACPdS, cit., fascicolo Maurer I., documento del 13 ottobre 1941.

[14] Il 29 luglio 1942 la Questura di Padova inviò ai Podestà di Abano, Piove, Mestrino, Monselice, Montagnana, Lozzo Atestino e p. c. Comando CC. RR. Padova ed Este la circolare ministeriale n. 442/18947 del 5 corrente, chiedendo di “far sapere quale iniziativa potrà essere presa verso gli internati e ebrei nei singoli comuni”. ACPdS, cit., fascicolo “Municipio di Piove di Sacco. Schedario stranieri soggiornanti nel Comune di Piove di Sacco”.

[15] I brani riportati sono tratti dal citato documento già riprodotto nell’ambito di una precedente ricerca su www.dalrifugioallinganno.it/didattica/parte%20terza/gruppo%202/gruppo%202a%20-%20lavoro,%20scuola,%20religione.pdf.

[16] Per la provincia di Vicenza si possono vedere una serie di documenti pubblicati su  http://www.dalrifugioallinganno.it/didattica/parte%20terza/gruppo%202/gruppo%202b%20-%20salute,%20censura.pdf.

[17] ACPdS, cit., fascicolo “Alloggi internati 1941 – Corrispondenza elenchi”. Un analogo documento è presente anche nell’Archivio comunale di Monselice.

[18] Come nota 15.

[19] ACPdS, fascicolo Maurer, cit. Si fa riferimento al documento dell’8 agosto 1942 (Commissario Prefettizio alla Questura), 19 agosto 1942 (Questura di Padova al Podestà e CC. RR.), 29 agosto 1942 (Luigi Rosin al Municipio di Piove di Sacco), 31 agosto 1942 (Commissario Prefettizio al Questore di Padova), 15 settembre 1942 (Commissario Prefettizio al Questore di Padova).

[20] Si veda http://www.dalrifugioallinganno.it/Comuni/malo.htm.

[21] ACPdS, cit., con particolare riferimento ai documenti del 12 luglio 1943 del Comune di Malo e del 19 luglio del Commissario Prefettizio di Piove di Sacco.

[22] I loro nomi sono presenti nella lista del Joint Distribution Committee del 1° gennaio 1945. Si tratta di un  documento inviato da Reuben B. Resnik dall’American Joint Distribution Committee di Roma all’American Joint Distribution Committee di New York. Il documento originale è stato messo a disposizione sul sito dei JDC Archives alla pagina:    http://search.archives.jdc.org/notebook.asp?lang=ENG&dlang=ENG&module=search&page=next_list&rsvr=&param=%3Crsvr_ser%3E@@2%3C/%3E%3Cdlang%3EENG%3C/%3E%3Cquery_name%3Earchivesprod_1932_599643%3C/%3E%3Cquantity%3E15%3C/%3E%3Cstart_entry%3E61%3C/%3E%3Cnum_of_items%3E98%3C/%3E%3Cquery_index%3E@global%3C/%3E%3Cthumb%3E0%3C/%3E%3Cnob%3E5%3C/%3E%3Csmode%3Edts%3C/%3E%3Cbook_id%3E704120%3C/%3E%3Cview%3Erecords%3C/%3E%3Cwords%3Eamerican%20joint%20distribution%20committee%20rome@@american@@joint@@distribution@@committee@@rome@@n%3C/%3E&param2=&site=ideaalm.

[23] Comunicazione via mail del 24 gennaio 2020 con il vice-sindaco di Piove di Sacco, Lucia Pizzo.

[24] ACPdS, cit., documenti rilasciati il 4 settembre 1945 dal sindaco di Piove di Sacco, Giovanni Buia.

[25] Documento fornito dal vice-sindaco di Piove di Sacco, Lucia Pizzo.

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5. La famiglia Langnas

La storia dell’internamento di Ignazio Langnas cominciò il 1° luglio 1940 quando il Ministero dispose il suo ingresso nel campo di concentramento di Campagna [1]. Vi giunse il 6, come comunicato dal prefetto di Salerno, D’Andrea, che informò anche quello di Milano [2], città dove si trovava inizialmente la famiglia. Lo stesso D’Andrea chiese al prefetto di Milano, Marziali, se l’internato dovesse ricevere il sussidio, ottenendo un parere positivo visto che “trovasi in misere condizioni economiche” [3]. Dopo qualche mese, la moglie di Ignazio, Dora Weinstein, chiese e ottenne un permesso per far visita al marito all’interno del campo. Si trattava solo di quattro giorni che però erano fondamentali in una situazione di separazione e crescente incertezza [4]. I problemi di una famiglia smembrata si facevano sentire e il 6 maggio 1941 Ignatz scrisse direttamente al Ministero per esporre la sua situazione [5]. Ovviamente l’istanza di un internato doveva passare sempre al vaglio delle autorità, in questo caso la Prefettura di Salerno, che poi la inoltravano a Roma [6]. Ignatz, però, non si limitò ad utilizzare i canali ufficiali. Si rivolse anche al Vescovo di Campagna, monsignor Palatucci, che si trovò a gestire diverse richieste da parte degli internati, raccolte anche nel corso delle sue visite al campo, come si vedrà con le storie di Lipschitz e Lobmann. Il Vescovo intercedeva per gli ebrei esponendo brevemente, nelle missive inviate al Ministero, la loro situazione [7]. Quella prodotta per Langnas partì il 21 maggio [8]. Che cosa chiese esattamente Ignatz? Lo si scopre attraverso le sue stesse parole: “Mia moglie trovasi libera a Milano, viale Piave 11, appartamento proprio, assieme con i nostri figli Giuseppe (…) Bettina (…). Siamo venuti in Italia per emigrare in Florida USA dove si trovano i miei parenti. Mia moglie è di gracile costituzione e le cure che essa deve dare ai nostri figli sono troppo pesanti per la sua salute e questo stato di cose pregiudica lo sviluppo fisico dei due bambini di tenere età. La mia lontananza scuote anche il sistema nervoso di mia moglie rendendola sempre meno capace all’educazione dei nostri amati figliuoli. Ecco perché essa ed io desideriamo essere riuniti al più presto in luogo che cotesto Ministero voglia destinare” [9]. La richiesta non scosse particolarmente il prefetto Marziali che il 10 giugno rese noto “che da parte di questo ufficio nulla osta che la moglie ed i figli si riuniscano con l’esponente in altra località. Si esprime parere contrario ad una sua eventuale assegnazione in un comune di questa provincia” [10]. Un parere che riecheggiava quelli di altri prefetti per cui non si opponevano ai ricongiungimenti, ma l’importante era tenere gli ebrei stranieri lontani dalle proprie province. Preso atto di questa posizione, il Ministero chiese ai prefetti di Salerno e Milano di interpellare entrambi i coniugi per sapere se fossero disposti a essere internati a Ferramonti [11]. Messo alle strette dalle notizie che giungevano dalla moglie, il 24 giugno, dalla caserma San Bartolomeo, Ignazio decise di rivolgersi nuovamente a monsignor Palatucci [12] che il giorno seguente si premurò di contattare il commendatore Epifanio Pennetta, alla Direzione Generale Affari Riservati del Ministero dell’Interno che sovrintendeva e gestiva l’internamento degli ebrei stranieri [13]. La pressione dovette avere un qualche effetto, visto che il 1° luglio il Ministero intervenne, predisponendo però l’internamento di Ignazio a Ferramonti “ove con provvedimento in data odierna è assegnata la di lui moglie” [14]. Un ricongiungimento, quindi, ottenuto con lo spostamento in un altro campo di concentramento dove nel frattempo erano state costruite alcune baracche per famiglie. Non mancò contestualmente l’invio di una comunicazione a Giuseppe Maria Palatucci, sottolineando che il trasferimento era stato disposto “a seguito delle vostre gradite premure” [15].

Le Prefetture di Milano, l’11, e di Salerno, il 12 [16], comunicarono al Ministero la disponibilità dei coniugi a riunirsi a Ferramonti. Il 22 Ignazio arrivò nel nuovo campo [17], dopo aver ricevuto dal direttore di Campagna i documenti e gli oggetti personali. Particolare il riferimento del direttore Mario Majello al fatto che Ignazio avesse ricevuto la vaccinazione antitifica [18], elemento che non è specificato nei documenti relativi ad altri campi. Dora e i figli arrivarono a Ferramonti il 31 [19]. Sulla loro presenza nel campo calabrese non ci sono notizie, ma tra le carte di Israel Kalk [20] non mancano le richieste degli ebrei internati nel padovano [21]. Un mese dopo il loro arrivo a Ferramonti, Giuseppe e Bettina, che avevano rispettivamente 10 e 5 anni, scrissero una lettera all’ingegner Kalk. È la scrittura di un bambino e vicino al nome di Bettina appare la dicitura “mia sorellina” il che fa pensare che l’autore sia Giuseppe, anche se con molta probabilità dietro consiglio dei genitori. Inoltre, il contenuto fa subito pensare che la famiglia conoscesse Kalk e i suoi assistenti già dal periodo trascorso a Milano.

Solo oggi mi è possibile scrivervi qualche riga. Prima devo comunicarvi che siamo qui arrivati dopo 50 ore di viaggio non sempre molto comodo. La prima impressione di Ferramonti per noi non era molto bella, ma considerando che siamo riuniti col nostro papà, siamo felici di poter essere qui. Si può avere qui tutto. Purtroppo mancano qualche volta ai miei genitori i soldi per poter offrirmi tutto.

La lettera si terminava con i saluti e gli auguri per il nuovo anno, che si sarebbe festeggiato da lì a tre settimane. Questo rapporto non s’interruppe una volta passati a Piove di Sacco e lo dimostrano altre cartoline, sia di Ignazio sia di Giuseppe. Ai saluti e alla comunicazione del nuovo indirizzo, s’intramezzavano richieste di aiuto: un vestito e un paio di scarpe n. 33 per Giuseppe e calze invernali e scarpe n. 30 per Bettina. Si tratta di lettere, spesso scritte in tedesco, non dissimili da quelle inviate dai Fullenbaum e dai Mstowski, internati a Piove di Sacco, e dai Bindefeld, presenti a Monselice. Interessanti anche le schede preparate per gli internati che erano ricoverati in ospedale e che chiedevano l’assistenza della Mensa dei bambini. Deriva da questi documenti l’informazione sul ricovero di Ignazio presso l’ospedale civile di Piove di Sacco.

Tredici mesi dopo l’arresto di Ignazio, anche per la sua famiglia, si aprì dunque la porta dell’internamento libero. Tra le due province indicate dalla famiglia, Cremona e Padova, fu scelta la seconda e a metà settembre del 1941 giunsero a Piove di Sacco [22].

Dai documenti non è chiaro cosa sia accaduto, ma il 23 novembre il questore di Padova scrisse al podestà e ai Carabinieri di Piove di Sacco invitandoli a diffidare Ignazio “a non frequentare persona di equivoca condotta morale e politica e di attenersi rigidamente alle regole che disciplinano gli internati. In caso dovesse dar luogo ad ulteriori rilievi saranno adottati severi provvedimenti nei suoi confronti” [23]. Facendo seguito alla richiesta, il 1° dicembre il podestà di Piove, il cav. Giulio Vallini, convocò Ignazio dando lettura della nota della Questura e invitandolo ad “attenersi rigidamente alle regole che disciplinano gli internati” [24].

Oltre due mesi dopo, nel febbraio 1942, i Langnas chiesero il trasferimento a Monselice, ma la loro richiesta non fu esaudita [25], nonostante il podestà di Monselice avesse comunicato di non avere nulla “in contrario a che i due ebrei croati indicati in oggetto siano trasferiti a Monselice”, anche se “si fa (…) osservare come Monselice, fra i vari capoluoghi di Mandamento, sia il meno indicato ad ospitare elementi indesiderabili essendo centro stradale e ferroviario di primaria importanza, attraverso il quale transitano spesso non solo importanti convogli bellici, ma anche personaggi della Real Casa e del Governo” [26]. Il podestà inviò risposte identiche per le richieste di Arturo Gluck e dei Mstowski. Questo tipo di atteggiamento tendente a esporre perplessità, difficoltà, mancanze di spazi nei singoli comuni o a livello provinciale fu piuttosto diffuso. Si cercava in questo modo di limitare la presenza degli internati, in alcuni casi per motivi ideologici, più spesso adducendo ragioni pratiche.

Grazie all’Holocaust Memorial Center di Farmington Hills, nel Michigan, che ha raccolto, tra le altre storie orali, quella dei Langnas [27], è possibile conoscere cosa sia accaduto dopo l’8 settembre, ma anche altri importanti dettagli della loro storia prima dell’arrivo in Italia.

Dora Weinstein era nata e cresciuta a Vienna in una famiglia di commercianti [28] che garantirono a lei e ai suoi quattro fratelli [29] una vita tranquilla. Quando sposò Ignazio, lui si guadagnava da vivere grazie ad un deposito di legname appena fuori Vienna. Nessuno dei Langnas ricorda particolari attacchi antisemiti se non dopo l’Anschluss. La stessa Dora ricorda che “le persone che un tempo erano loro amici e vicini divennero rapidamente i loro nemici”. Presto, con la nazificazione dell’economia, si ritrovarono senza mezzi per vivere. A quel punto Ignazio decise di fuggire verso l’Italia, anche se Dora non ne era del tutto convinta, “pensando che il disagio di vivere con le truppe occupanti tedesche fosse solo temporaneo”. Come spesso si nota in queste ricostruzioni, è il marito a precedere il resto della famiglia, trasferendosi a Milano. Dora, spinta dai suoi genitori che si erano visti sequestrare il negozio e la casa e che le assicurarono che avevano un piano per raggiungere Shanghai [30], vendette qualche oggetto d’oro e raggiunse Ignazio in Italia.

Dopo i primi mesi, la situazione a Milano diventò difficile e si è visto come gli arresti del giugno 1940 e i giorni nelle carceri del capoluogo lombardo furono un’anticipazione del percorso d’internamento. Dai ricordi di Dora emerge che “quando la famiglia Langnas arrivò a Ferramonti, furono tutti trasferiti nello stesso edificio e fu detto loro che sarebbe stato fornito del cibo. Anche se Ignatz doveva lavorare, Dora e i suoi figli potevano ciò che volevano, a condizione che rimanessero all’interno dei confini del campo”. Con l’arrivo delle successive ondate d’internati, i posti a Ferramonti cominciarono a scarseggiare e questo spinse il Ministero a predisporre il trasferimento degli ebrei nei comuni del centro-nord. A Piove di Sacco, i Langnas andarono a vivere in un appartamento con una donna sola. Incrociando i dati, deve trattarsi di Anna Sartori, vedova Faccioli, che abitava in via San Francesco, 12.

Come si riscontra in diversi ricordi di ex internati, anche nel caso dei Langnas l’internamento libero corrisponde a un periodo di tranquillità, una parentesi che li porta ad avere un giudizio benevolo nei confronti dell’Italia e del popolo italiano che sono spesso citati confondendo i piani tra regime e atteggiamenti quotidiani degli italiani e dimenticando forse il quadro generale della persecuzione degli ebrei in Italia. È così che, comparando i due anni d’internamento con quanto accaduto negli anni precedenti e dopo l’8 settembre, la permanenza a Campagna o a Ferramonti e il successivo “obbligo di dimora” in un paese di provincia, mentre a est lo sterminio procedeva a pieno ritmo, rappresentavano un’alternativa decisamente sopportabile, una limitazione dei diritti che però li metteva in salvo. Le già note prescrizioni da seguire nei luoghi d’internamento, da questo punto di vista, erano uno sforzo non troppo gravoso. È così che nella storia orale raccolta dall’Holocaust Memorial Center, Dora e Giuseppe hanno potuto affermare che si è trattato di “uno sforzo consapevole da parte del popolo italiano per risparmiare al popolo ebraico il tipo di abuso subito in altri paesi”. Quando il metro di paragone è la morte e la strategia riflessiva quella del male minore, si è forse in grado di rinunciare ai propri diritti, di sorvolare sulla propaganda e sulla legislazione razziale e di non cogliere il nesso tra le misure adottate dal regime fascista prima e dopo l’autunno del 1943.

Dora e la sua famiglia legarono con diversi abitanti di Piove di Sacco, tra cui la famiglia Gallo. Giuseppe ricorda in modo particolare di aver trascorso gran parte del suo tempo a giocare con loro. Altro elemento importante della quotidianità fu la possibilità di frequentare la scuola ebraica di Padova. Il nome di Giuseppe compare la prima volta in una lettera che il padre inviò alla Comunità Israelitica di Padova il 2 ottobre 1941 [31]:

Gent. Sig. avvocato,

vorrei urgente che il mio figlio Giuseppe frequenta la scuola Israelitica di Padova volete informarmi subito, cosa io dovreste fare. Credo che il mio figlio potra senza altro partire giornalmente a Padova e ritornare. Vi prego allora di rispondermi immediatamente. Grazie infiniti …

Distinti saluti a sig. Dr. Nissim e signora dell’ufficio.

Più di un anno dopo, Bianca Carpi rilasciò un documento su carta intestata della scuola ebraica di Padova [32] per attestare che Giuseppe era a tutti gli effetti un alunno della scuola elementare e che aveva quindi diritto all’abbonamento ferroviario con tariffa ridotta [33].

Per quanto riguarda il resto del tempo, Joseph lavorò ogni tanto alla raccolta dell’uva e frequentò un rabbino presente a Piove di Sacco da cui riceveva degli insegnamenti religiosi. Probabilmente si trattava di Eugenio Lipschitz di cui si parlerà. A sua volta, Dora trascorreva il suo tempo cucinando, pulendo e occupandosi della famiglia.

A seguito dei fatti legati all’armistizio, i Langnas cominciarono la loro fuga. Nella loro testimonianza parlano di un poliziotto [34] che li avrebbe avvertiti del pericolo e li avrebbe spinti a lasciare Piove di Sacco. È un elemento importante perché si ritrova anche nei ricordi degli altri internati e aiuta a spiegare l’uniformità dei comportamenti degli internati di Piove. Si trattò di una soffiata fondamentale se si pensa che in altri comuni veneti l’intero gruppo d’internati fu arrestato e deportato [35].

Quella che è possibile immaginare come una rete improvvisata di aiuti poté contare anche su una contessa [36], che disse a Dora e a Ignazio di recarsi presso una tipografia locale che avrebbe fornito loro dei documenti falsi per viaggiare senza essere scoperti, mentre la famiglia Gallo si offrì di prendersi cura di Giuseppe e Bettina, gesto che non fu accolto per non smembrare la famiglia. All’inizio il tentativo di fuga si rivelò infruttuoso e i Langnas tornarono a Piove di Sacco, dove scoprirono che i tedeschi erano andati a cercarli. A quel punto la contessa fornì loro il nome di un vescovo di Firenze al quale si presentarono poco tempo dopo e che sistemò Dora e i due bambini in un convento per qualche mese, facendoli passare per sfollati. Ignazio si nascose altrove. In seguito il vescovo li inviò nel castello di Montetrini dove rimasero per poco tempo. A quel punto si raggiunse un accordo con un fruttivendolo che li avrebbe portati a Roma dove avrebbero dovuto essere nascosti in un altro convento. Si trattò di una questione di giorni perché arrivò la liberazione della capitale. Fu lì che furono contattati dagli organizzatori del progetto di Roosevelt che aveva deciso di portare negli Stati Uniti circa 1000 rifugiati [37]. Verso la fine dell’esperienza trascorsa nel campo di Fort Ontario, i rifugiati, non tutti ebrei, furono sentiti da una commissione d’inchiesta che stava approfondendo il problema dell’ammissione legale negli Stati Uniti del gruppo di profughi giunto sul suolo americano nell’estate del 1944. Il 25 giugno 1945 fu sentito Joseph [38] che nel frattempo andava a scuola e fu nominato presidente della sua classe alla Fitzhugh Park School di Oswego [39]. Nel suo colloquio, Jospeh ricostruì la storia della sua famiglia e poi fu incalzato dalle domande del presidente della commissione, Samuel Dickstein, che voleva indagare le reali intenzioni dei singoli rifugiati. Al presidente che gli chiese se desiderasse tornare in patria o rimanere negli Stati Uniti, Joseph spiegò che non voleva tornare anche perché sapeva che suo nonno era morto in un campo di concentramento. Rivelative le ultime domande di Samuel Dickstein: “Ti piacerebbe stare qui?”; “Ti piace questo paese?”; “Che cosa ti insegnano a scuola?”; “Conosci la democrazia e che cosa rappresenta?”; “Approvi questa forma di governo?”; “La difenderesti se fosse necessario?”. I ripetuti sì di Joseph misero fine all’incontro.

Un altro motivo che li aveva spinti negli Stati Uniti era la presenza del fratello di Ignazio, Leon, che, cinque anni prima, si era stabilito a New York [40]. All’atto della scelta della destinazione finale all’interno degli Stati Uniti, i Langnas scelsero però Detroit [41].

Ignazio trascorse i suoi ultimi anni (morì nel 1972) come mercante di vino, dopo aver svolto vari lavori saltuari. Dora ha lavorato per vent’anni come sarta da Hudson. La figlia più piccola, Bettina, dopo l’educazione avuta in uno yeshivot, così come Joseph, ha fatto la segretaria [42]. Joseph, il primo ragazzo ad avere il suo Bar Mitzvah nel campo di Fort Ontario [43], diventò un osteopata e insegnante di patologia al Botsford Hospital, nei pressi di Detroit. Interrogato sul periodo trascorso a Fort Ontario disse: “Oswego è stata una delle esperienze in base alle quali noi misuriamo le nostre vite” [44]. Joseph è morto nel 2005 a 73 anni [45].

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NOTE

[1] ACS, MI DGPS DAGR, A4 bis, b. 204, fascicolo “Laguas Ignazio di Nachmen e moglie”, 1 luglio 1940, Ministero dell’Interno alla Prefettura di Milano e p. c. alla Prefettura di Salerno.

[2] Ivi, 11 luglio 1940, Prefettura di Salerno al Ministero dell’Interno – DGPS, DAGR e p. c. al Prefetto di Milano.

[3] Ivi, 6 settembre 1940, Prefettura di Milano alla Prefettura di Salerno e p. c. al Ministero dell’Interno – DGPS, DAGR.

[4] Ivi, 22 dicembre 1940, Prefettura di Milano alla Direzione del Campo di Concentramento di Campagna e p. c. alla Prefettura di Salerno e al Ministero dell’Interno – DGPS, DAGR.

[5] Ivi, 6 maggio 1941, Ignazio Langnas al Ministero dell’Interno – DGPS, Reparto Internati.

[6] Ivi, 17 maggio 1941, Prefettura di Salerno al Ministero dell’Interno – DGPS, DAGR.

[7] Voigt, Il rifugio precario, vol. II, p. 185.

[8] Ivi, appunto del 21 maggio 1941.

[9] Come nota 5.

[10] Ivi, 10 giugno 1941, Prefettura di Milano al Ministero dell’Interno – DGPS, DAGR.

[11] Ivi, 19 giugno 1941, Ministero dell’Interno ai prefetti di Salerno e Milano e p. c. al prefetto di Cosenza.

[12] Ivi, 24 giugno 1941, lettera di Ignazio Langnas a S. E. Reverendissimo Monsignor Palatucci Vescovo di Campagna.

[13] Ivi, 25 giugno 1941, lettera di Monsignor Palatucci al Commendatore Epifanio Pennetta.

[14] Ivi, 1° luglio 1941, Ministero dell’Interno alla Prefettura di Salerno e p. c. alla Prefettura di Cosenza e Milano, al Direttore del campo di concentramento di Campagna.

[15] Ivi, 1° luglio 1941, Ministero dell’Interno a Monsignor Giuseppe Maria Palatucci.

[16] Ivi, 11 luglio 1941 Prefettura di Milano al Ministero dell’Interno e p. c. alla Prefettura di Salerno; 12 luglio 1941, Prefettura di Salerno al Ministero dell’Interno e p. c. alle Prefetture di Milano e Cosenza.

[17] Ivi, 22 luglio 1941, Direttore del campo di Ferramonti al Direttore del campo di Campagna e p.c. al Ministero dell’Interno, alle Questure di Salerno e Cosenza.

[18] Ivi, 21 luglio 1941, Direzione del campo di concentramento di Polizia di Campagna alla Direzione del campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia e p. c. al Ministero dell’Interno – DGPS, DAGR e p. c. alla Regia Questura di Cosenza e di Salerno.

[19] Ivi, 31 luglio 1941, Direttore del campo di Ferramonti alla Questura di Milano e p. c. al Ministero dell’Interno e alla Questura di Cosenza.

[20] Su Kalk e sulla mensa dei bambini si veda http://digital-library.cdec.it/cdec-web/storico/detail/IT-CDEC-ST0006-000000/israel-kalk.html.

[21] I documenti si trovano in “Richieste assistenza bambini internati” (http://digital-library.cdec.it/cdec-web/storico/detail/IT-CDEC-ST0006-000007/34-richieste-assistenza-bambini-internati-34.html), in “Lettere di ringraziamento e richieste aiuto dai vari luoghi d’internamento” (http://digital-library.cdec.it/cdec-web/storico/detail/IT-CDEC-ST0006-000009/34-lettere-ringraziamento-e-richieste-aiuto-dai-vari-luoghi-d-internamento-34.html) e in “Servizio ospedaliero” (http://digital-library.cdec.it/cdec-web/storico/detail/IT-CDEC-ST0006-000004/34-servizio-ospedaliero-34.html).

[22] Ivi, 14 settembre 1941, Prefettura di Padova al Ministero dell’Interno – DGPS, DAGR e p. c. al Direttore del campo di Ferramonti di Tarsia. ACPdS, fondo D487, f. Ebrei, sottofascicolo 8 “Langnas Ignazio”, 15 settembre 1941, Soggiorno degli stranieri.

[23] ACPdS, cit., 23 novembre 1941, biglietto urgente di servizio della Questura di Padova al Podestà di Piove di Sacco e ai CC. RR.

[24] Ivi, 1° dicembre 1941, “copia del verbale di diffida nei confronti dell’internato Langnas Ignazio”.

[25] Ivi, 23 febbraio 1942, Questura di Padova al Podestà e al Comando Stazione dei CC. RR. di Piove di Sacco.

[26] ACM, Ebrei stranieri, 20 febbraio 1942, Podestà di Monselice alla Questura di Padova. Sugli ebrei presenti a Monselice è dedicata un approfondimento in Flaviano Rossetto (a cura di), Monselice nella seconda guerra mondiale. Storie di soldati di donne e di partigiani dalla monarchia alla repubblica, Città di Monselice, 2009, pp. 77-78.

[27] Si veda https://www.holocaustcenter.org/visit/library-archive/oral-history-department/langnas-dora-and-josef-h/. La testimonianza è stata rilasciata il 12 agosto 1998 a Donna Sklar.

[28] I genitori di Dora, Heinrich e Mina Weinstein possedevano un piccolo negozio di prodotti secchi.

[29] Helaine, Eva, Paula e Friedrich.

[30] Nella sua testimonianza Dora riporta che i suoi genitori e la maggior parte dei suoi fratelli erano arrivati sani e salvi a Shanghai, mentre sua sorella Paula sopravvisse dopo essere rimasta nascosta in Olanda.

[31] ACEPD, Scuola, b. 3.

[32] Autorizzata con Decr. del R. Provveditorato agli Studi n. 17857 del 26.12.38 XVII, come si legge sullo stesso documento.

[33] ACEPD, Scuola, b. 3. Lettera del 7 dicembre 1942, Bianca Carpi alla Società Veneta Ferrovie Secondarie. Nella ricostruzione di Dora e Giuseppe al Holocaust Memorial Center risulta quanto segue: “A Josef fu persino permesso di frequentare la scuola. Il governo ha persino pagato per far andare Josef in treno ogni giorno nella città di Padova, dove nel pomeriggio ha frequentato una scuola cattolica con altri ragazzi ebrei. Josef ricorda di aver fatto una gita di un giorno a Venezia con il suo insegnante per l’eccellenza nel suo esame di quinta elementare”. Non si trattava ovviamente di una scuola cattolica. Sugli altri elementi esposti non è possibile esprimersi, ma ci sono forti dubbi sul fatto che il governo abbia pagato l’abbonamento come dimostra il fatto che la prof.ssa Carpi abbia dovuto intervenire per l’ottenimento della tariffa ridotta dell’abbonamento.

[34] “Un poliziotto locale di Piove di Sacco diede istruzioni (…) di lasciare immediatamente l’area, poiché era stato recentemente avvicinato dalla Gestapo, che stava cercando i passaporti degli ebrei conservati dalla polizia”.

[35] Si pensa qui alla famiglia Bindefeld presente a Monselice, ma anche ad Albettone e a Barbarano in provincia di Vicenza.

[36] Potrebbe trattarsi di Maria Luigia Radini Tedeschi (detta Isabella), nata il 30 gennaio 1921 dal conte Federico (di professione medico) e da Eugenia Fagan. Sposata nel 1946 con l’avvocato Vittorio Foggiato da Azergrande, molto più grande di lei, vedovo e con una figlia, lo lasciò dopo 6 mesi tornando a vivere a Palazzo Gradenigo col fratello Alberto e la madre. Ha insegnato per 22 anni Lettere Italiane e Lingua Francese nelle scuole di avviamento e medie di Piove di Sacco, Pontelongo, Correzzola e Sottomarina. Si è spenta il 1° giugno 1966. Le informazioni sono presenti sulla pagina Facebook dell’Associazione “Amici del Gradenigo”.

[37] Si veda Spinelli, Vite in fuga.

[38] Investigation, cit., p. 32. Per una sintesi dei lavori della Commissione guidata da Samuel Dickstein si veda Spinelli, Vite in fuga, pp. 273-280.

[39] Questo dato è presente anche in Ruth Gruber, Haven: The Dramatic Story of 1,000 World War II Refugees and How They Came to America, Three river press, New York 2000, p. 182.

[40] Investigation, cit. p. 122.

[41] I Langnas desideravano vivere in una città dove poter garantire una buona istruzione ai figli e che avesse una sinagoga. Dopo aver ristretto il campo e averne discusso, scelsero Detroit.

[42] Per le informazioni sulla famiglia negli Stati Uniti si veda Sharon R. Lowenstein, Token refuge. The story of the jewish refugee shelter at Oswego,1944-1946, Indiana University Press, Bloomington 1986, p. 179.

[43] Gruber, Haven, cit., pp. 154-155; Lowenstein, Token refuge, cit., p. 64.

[44] Gruber, Haven, cit. p. 258.

[45] L’annuncio della morte fu pubblicato sul Detroit News il 6 febbraio 2005, come si può leggere su https://www.legacy.com/obituaries/detroitnews/obituary.aspx?n=joseph-herman-langnas&pid=182885163&fhid=25535

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