Teatro Olimpico o Eretenio?
Sulle tracce del secondo luogo di detenzione per ebrei dopo il campo di Tonezza del Cimone
Sui dubbi relativi al teatro in cui furono tenuti alcuni ebrei prima della deportazione, si offre come contributo l’intervento di Antonio Spinelli tenuto lunedì 27 gennaio 2020 presso l’Odeo del Teatro Olimpico a Vicenza nell’ambito delle cerimonie del Giorno della Memoria. Alcuni dati sono stati aggiornati nel 2023.
Il 30 gennaio 1944 un treno merci partì dal binario 21 della stazione centrale di Milano. Quando si fermò a Verona per caricare gli ebrei detenuti nel campo di Tonezza del Cimone, per la provincia di Vicenza si chiuse nel più tragico dei modi il lungo periodo che la vide coinvolta nelle politiche nazifasciste. Giunti ad Auschwitz domenica 6 febbraio, gli oltre 600 deportati dovettero subire l’usuale selezione: 128 ebrei (97 uomini e 31 donne) furono registrati nel campo. Alla liberazione, solo 22 (14 uomini e 8 donne) furono i sopravvissuti, tra cui Liliana Segre che in quel momento non aveva nemmeno 15 anni. Degli ebrei arrestati e deportati dal vicentino, nessuno si salvò [1].
Questi dati, che fotografano la storia del secondo convoglio partito da Milano, ci interrogano sul processo decisionale che portò alla realizzazione della Shoah anche in Italia e sulle responsabilità del fascismo nella distruzione del popolo ebraico. Diventa necessario, quindi, guardare all’intero arco storico che ha costruito le condizioni della deportazione.
Lo schema generale della Shoah è stato già delineato da Hilberg [2]. In questo quadro, è possibile definire il razzismo anti-ebraico del fascismo come potenzialmente genocidario. Il regime fascista, infatti, prima del salto di qualità dell’autunno del 1943, aveva già intrapreso il cammino: una feroce campagna antisemita, le leggi razziali, l’esclusione e la separazione, l’espulsione dal Regno attuata per gli ebrei stranieri e pensata anche per gli ebrei italiani [3], la successiva creazione di una miriade di luoghi di internamento, il lavoro coatto, la decisione del giugno del 1943 [4] di costringere gli ebrei a lavorare in appositi campi di concentramento, i rimpatri chiesti dal Direttorio del PNF il 14 giugno 1943 [5] e l’idea, risalente addirittura al 25 luglio 1943, di trasferire gli internati di Ferramonti a Bolzano [6]. Tutte questa tappe, se guardate nel loro insieme, mostrano chiaramente quali furono le responsabilità del fascismo [7] e come quei provvedimenti prepararono il terreno al periodo del collaborazionismo della RSI.
Già prima della «persecuzione dei diritti» di cui parla Sarfatti e che copre gli anni 1938-1943, il fascismo aveva cominciato a manifestare la sua attenzione nei confronti degli ebrei stranieri. Il 7 luglio 1933, infatti, il governo italiano, vigile rispetto a quanto stava avvenendo in Germania a pochi mesi dall’arrivo al potere di Hitler, chiese alle Prefetture se c’erano stati movimenti di profughi israeliti tedeschi provenienti dall’estero. Tre mesi prima, a Milano, era nato il Comitato Italiano di Assistenza per gli Ebrei Profughi della Germania. Due spie che denotano come il problema dei flussi migratori cominciava a diventare centrale sia a livello europeo e nazionale sia a quello locale.
In realtà il regime italiano non decise di bloccare l’ingresso dei profughi, anche in «in considerazione dell’irrilevante numero di israeliti tedeschi emigrati in Italia» [8]. Ciò che contava era controllarli onde evitare di ritrovarsi «israeliti germanici (…) che abbiano militato attivamente in partiti politici contrari al Fascismo, e mettendo bene in chiaro che il Regio Governo non tollererebbe da parte loro qualsiasi attività politica diretta contro il Regime Germanico» [9].
La circolare del luglio 1933 doveva servire, quindi, a schedare gli ebrei entrati in Italia. Alla fine furono pochissimi i casi “pericolosi” segnalati. La rilevazione del 24 ottobre 1934 evidenziò un aumento della presenza di ebrei stranieri in Italia, ma fu la richiesta ministeriale del 5 maggio 1936 che mostrò che le decisioni politiche del nazismo stavano spingendo gli ebrei tedeschi e quelli di altre nazionalità presenti in Germania a varcare i confini per cercare un “rifugio” dalla persecuzione [10]. Anche da Vicenza ci si mosse per assicurare una pronta risposta alle richieste del Ministero dell’Interno. Il 24 luglio 1933 il prefetto Del Vecchio non segnalò la presenza di profughi israeliti né di comitati nati per aiutarli e d’altronde non poteva essere diversamente considerato che normalmente erano le Comunità ebraiche già esistenti a costituire quei comitati che avrebbero dovuto garantire la prima accoglienza e l’assistenza necessaria [11]. Nessuna segnalazione nemmeno il 3 novembre 1934 e il 22 maggio 1936.
Solo dopo il censimento dell’agosto 1938 e soprattutto la promulgazione delle leggi razziali, da Vicenza furono inviate le prime indicazioni. Il 10 ottobre 1938, infatti, la Prefettura comunicò al Ministero l’«elenco nominativo degli ebrei stranieri residenti in questa provincia posteriormente al I gennaio 1919» e l’«elenco degli ebrei stranieri che acquistarono la cittadinanza italiana posteriormente al I gennaio 1919». Sul primo furono stampigliati i nomi di cinque ebrei: gli ungheresi Ladislao Weisz, Gustavo Rosemberg e la moglie Giulia Laszlo, la tedesca Elisa Rothschild e il siriano Nemer Babhan. Nel secondo compariva solo Curt Gutkind, domiciliato a Bassano del Grappa.
Bisogna subito sottolineare che il RDL del 7 settembre 1938 prevedeva l’espulsione degli ebrei stranieri dal Regno entro sei mesi. La Prefettura di Vicenza non fece mancare il suo apporto e il 30 giugno 1939 scrisse al Ministero per informarlo che Gutkind e i coniugi Rosemberg e Laszlo avevano lasciato l’Italia rispettando la scadenza, mentre Weisz e Rothschild Elisa avevano presentato una regolare domanda di proroga ed erano in attesa di una risposta. Diversa la situazione di Nemer Babhan che si dichiarava non ebreo, anche se «un suo figlio che risiedette a Vicenza nel 1930-31 a suo tempo affermò di essere figlio di ebreo. Inoltre il Babhan ha tutti i caratteri somatici della razza ebraica», come ebbe ad evidenziare il prefetto.
Su questo gruppo non ci sono informazioni: non risultano né tra gli internati in Italia né tra i deportati. Ciò non significa che quelle espulsioni non furono un provvedimento gravissimo da parte del fascismo a maggior ragione se pensiamo che il governo conosceva cosa stesse avvenendo in Europa centrale ed orientale e che la consegna di numerosi ebrei nelle mani dei paesi di origine comportò, in molti casi, la loro morte.
L’ingresso in guerra dell’Italia segnò uno spartiacque nelle politiche anti-ebraiche. Ormai impossibilitata a far espatriare gli ebrei stranieri, l’Italia ne dispose l’arresto e l’internamento. Dopo una serie di scambi di pareri tra Ministeri e la richiesta del 26 maggio inviata da Buffarini Guidi al capo della polizia Arturo Bocchini [12], il 1° giugno il Ministero dell’Interno, rivolgendosi alle Prefetture, diffuse i dettagli delle operazioni [13].
Contestualmente le autorità dovettero affrontare problemi pratici, a partire dall’individuazione dei luoghi. Se ne stava occupando, già dall’inizio del 1940, l’ispettore generale di pubblica sicurezza Guido Lospinoso, «con il compito di reperire edifici da utilizzare come campi di concentramento, quali ville in campagna, conventi, fortezze, scuole, caserme e fabbriche» [14]. Secondo un appunto del Ministero dell’interno, datato 31 maggio, erano disponibili, tra i vari campi, 4700 posti, che avrebbero dovuto essere portati rapidamente a 9400 [15]. Tale ricerca andava di pari passo a quella dei comuni per il cosiddetto internamento libero.
Tutti i preparativi [16] trovarono uno sbocco nella circolare telegrafica del 15 giugno 1940:
Appena vi sarà posto nelle carceri ciò che dovrà ottenersi sollecitando traduzione straordinaria individui già arrestati ai campi di concentramento loro assegnati dovrà procedersi rastrellamento ebrei stranieri appartenenti a Stati che fanno politica razziale. Detti elementi indesiderabili imbevuti di odio verso i regimi totalitari, capaci di qualsiasi azione deleteria per la difesa dello Stato et ordine pubblico vanno tolti subito dalla circolazione. Dovranno pertanto essere arrestati ebrei stranieri tedeschi, ex cecoslovacchi, polacchi, apolidi dall’età di diciotto a settanta anni (…) [17].
Anche in questo caso, la storia di Vicenza si intreccia con quella del Regno e mostra tutta la sollecitudine delle autorità locali. Il 21 giugno 1940 la Prefettura inviò al Ministero i nomi di tre ebrei: Giulio Neiger, Riccardo Rosiglioni (alla nascita Richard Löwenrosen) e Sigmund Israel Gutman. Il primo, un rappresentante di commercio nato a Vienna nel 1898, polacco diventato apolide, non fu ritenuto pericoloso. Viveva in via Cimone a Vicenza con la moglie e tre figli minorenni. Rosiglioni, anche lui viennese, già residente a Fiume (dove era rimasta la sua famiglia) e poi a Bassano del Grappa, era cittadino italiano, ma con le nuove disposizioni aveva perso la cittadinanza e risultava apolide. Fu segnalato come elemento antifascista, subdolo e pericoloso. L’ultimo dei tre, Gutmann, nato nel 1898, di nazionalità “germanica”, viveva nella zona di Imperia ed era stato inserito negli elenchi degli ebrei da internare in un campo di concentramento, ma il 18 giugno si era trasferito in provincia di Vicenza, a Caldogno, provvisto di foglio di via obbligatorio a causa dello sgombero della popolazione locale di Ospedaletti.
A seguito della circolare ministeriale del 22 giugno, contenente ulteriori chiarimenti sugli ebrei che non andavano arrestati, si provvide ad approfondire la situazione. Così, da un documento del 14 luglio, veniamo a sapere che Giulio Neiger fu rilasciato il 25 giugno in quanto residente nel Regno anteriormente al 1919. Neiger aveva vissuto a Merano dal 1935 al 1939 e si era spostato a Trento prima di raggiungere Vicenza dove visse indisturbato fino al 1943. Secondo la sua dichiarazione all’IRO, [18] si nascose a Velo D’Astico fino alla liberazione. Dopo la guerra si trovava in via Carpagnon 11 a Vicenza, con la moglie Franciska e i figli Elisabette, Emanuele e Ada [19].
Per Rosiglioni fu disposto l’accompagnamento al campo di concentramento di Notaresco, ma successivamente passò all’internamento libero prima a Cermignano e poi a Caramanico dove risulta anche alla fine della guerra [20]. Si sposò con Ludmila Maria Toniolo, originaria di Este e ostetrica a Giuliano Teatino. Dalla loro unione nacque nel 1947 Maria Luisa Di Rado [21].
Decisione simile fu presa per Gutman che fu internato nel campo di Agnone, prima di passare ad Isernia ed infine al campo di Ferramonti di Tarsia.
Come si vede, i singoli percorsi si rivelarono determinanti perché per gli ebrei rimanere nel centro-sud significò, senza che lo sapessero, potersi mettere in salvo o essere già liberi dopo l’armistizio. Non fu così in molti altri casi che riguardarono da vicino la provincia di Vicenza. I pochi nomi segnalati negli anni Trenta e gli arresti del 1940 non chiudono, infatti, il capitolo relativo alla presenza degli ebrei stranieri nel vicentino, perché dopo aver utilizzato in modo prioritario il loro invio nei campi di concentramento del centro-sud ed in particolar modo in quelli di Campagna e Ferramonti, il regime, anche per far fronte al problemi della disponibilità dei posti, ricorse all’internamento libero nei comuni. Non si comprende questo passaggio se non si accenna alla conquista della Jugoslavia, aggredita il 6 aprile 1941 dall’Italia e dalla Germania. La prima si annetté la metà meridionale della Slovenia, la striscia costiera croata, con alcune isole a sud-est di Fiume, e gran parte della costa dalmata e delle isole di fronte. I territori sottratti dalla Germania e la nascita dello Stato indipendente della Croazia furono altrettante minacce all’esistenza degli ebrei. Si assiste così ad un nuovo e consistente flusso migratorio di fuggiaschi che, in particolar modo dalla Croazia e dalla Serbia, si riversarono nelle zone della Jugoslavia annesse o occupate dall’Italia. Può sembrare strano che il fascismo, ideatore delle espulsioni degli ebrei stranieri nel 1938, permettesse loro di entrare nel Regno per internarli nei campi o nei comuni. In realtà, oltre a questioni di politica interna e militare, l’Italia non prese mai le distanze da quanto stava accadendo nella ex Jugoslavia [22] e che il governo fascista conosceva sia tramite le forze presenti sul territorio, sia attraverso la diplomazia [23] sia, infine, grazie alle dichiarazioni che gli stessi ebrei in fuga rilasciavano alle autorità italiane. Inoltre, le autorità italiane stesse chiarirono che autorizzarono i trasferimenti in Italia sostanzialmente per il timore di disordini, se non addirittura di azioni di resistenza armata da parte della maggioranza slava della popolazione. Da questo punto di vista esse vedevano nei profughi ebrei, lì presenti, un pericolo per la pubblica sicurezza. Il prefetto di Fiume, l’Alto commissario per la provincia di Lubiana e il Governatore della Dalmazia miravano quindi a liberarsi della loro presenza. Anche nella zona del Cattaro, in Albania, si spiegò che si trattava di «allontanare i suddetti da questa Provincia, per eliminare, così, elementi infidi e pericolosi, che avrebbero ostacolato la nostra penetrazione e la nostra affermazione in queste terra» [24].
Come si è visto due erano le soluzioni che si offrivano: l’espulsione o l’internamento in Italia. Nel primo caso gli ebrei venivano destinati alla morte, nel secondo si offriva loro quello che Voigt ha chiamato «rifugio precario» e che nel giro di pochi anni si sarebbe trasformato nell’inganno di quel regime che avrebbe preparato il terreno alla loro deportazione.
I primi trasferimenti riguardarono soprattutto la Dalmazia [25], dalla primavera del 1941, e Lubiana [26], dall’estate. In totale è stato stimato che entrarono in Italia «tra il luglio 1941 e il settembre 1943 non meno di 4100 ebrei stranieri dalla Jugoslavia, dall’Albania, da Rodi e dalla Libia» [27]. A questi vanno aggiunti quegli ebrei stranieri che già si trovavano in Italia e che, come si è detto, furono poi internati o nei campi di concentramento o nei comuni [28].
Il fascismo si dotò, quindi, di un vero e proprio sistema concentrazionario e il Veneto fu pienamente coinvolto da queste decisioni. Rovigo, Treviso e Vicenza furono tra le province in cui furono internati molti degli ebrei giunti dalla zona di Lubiana, soprattutto dal novembre 1941. L’internamento fu disposto anche quando gli ebrei non erano autonomi economicamente, condizione richiesta due mesi prima da Emilio Grazioli, alla guida della provincia di Lubiana.
Anche per quanto concerne il Governatorato della Dalmazia, il Ministero dell’Interno aveva previsto l’arrivo di persone che, una volta internate, non avrebbero dovuto far ricorso al sussidio statale. Così non fu. Dopo i progetti di ottobre che prevedevano l’arrivo di 1800-2000 ebrei da distribuire nelle provincie del centro-nord, si ebbe la partenza di sei convogli, tra il 20 novembre e il 15 dicembre, per un totale di 1095 ebrei arrivati da Spalato. Si trattava per lo più di croati, ma non mancavano ebrei serbi o di quelli provenienti dall’Austria, dalla Germania, dalla Polonia, dalla Cecoslovacchia o dall’Ungheria. Il prefetto di Vicenza, preavvisato da un telegramma del 30 ottobre insieme ai colleghi di altre province, prese atto dell’invio di due gruppi di ebrei indicati poi il 22 e il 25 novembre 1940 dalla Prefettura di Fiume al Ministero. Nel primo caso si trattava di 50 persone, nel secondo di 200.
Il vicentino, quindi, fu coinvolto soprattutto nella seconda e nella terza fase dell’internamento nei comuni, tra agosto e novembre del 1941, periodo in cui si passò in tutta Italia da 15 a 63 province interessate, 33 delle quali al nord. In tutto il Veneto l’internamento riguardò poco più di 1400 ebrei in circa 100 comuni [29]. Se si eccettua la Calabria, dove a Ferramonti di Tarsia era in funzionamento il più grande campo di concentramento italiano per ebrei, il Veneto ebbe il più alto numero di internati e il vicentino fu la zona con il maggior numero di ebrei, circa 620, non solo a livello regionale [30], ma nazionale. In provincia di Vicenza furono utilizzati come luoghi di internamento 26 comuni, senza contarne altri usati per periodi più brevi, come Rosà e Crespadoro.
Non è questa la sede per approfondire le caratteristiche dell’internamento libero. In linea generale si può affermare che rispetto al periodo precedente, legato alla fuga dalle persecuzioni nei paesi di origine, e a quello successivo all’armistizio, in cui gli ebrei lottarono per la vita, i due o tre anni di internamento rappresentarono per molti ebrei una sospensione del tempo e degli affanni, soprattutto se comparato con quanto stava avvenendo nell’est Europa.
L’“inganno” si materializzò con la formazione della Repubblica Sociale Italiana. Dopo aver indicato gli ebrei come «nemici» nel Manifesto di Verona [31], il 30 novembre 1943 il nuovo governo repubblicano emanò l’ordine di polizia n. 5 con cui si decise di arrestare e di internare in appositi campi di concentramento provinciali tutti gli ebrei (italiani e stranieri) [32]. Per il Vicentino si utilizzò la colonia alpina Umberto I [33]. Con l’intenzione di venire incontro alle necessità di bambini e adolescenti bisognosi, la colonia era stata costruita grazie alla spinta di alcune personalità in vista: Guardino Colleoni, nominato presidente; Giuseppe Roi, vicepresidente; Elesbaan Dal Lago, medico ufficiale; Giovanni Curti, cassiere; Angelo Valmarana, segretario.
Fu con l’assassinio del re Umberto I, avvenuto il 29 luglio del 1900, che il presidente Colleoni propose di dedicargli la colonia. Undici anni dopo, il marchese Rosi e il conte Angelo di Valmarana decisero di donare dei terreni e dei fabbricati per la costruzione di una nuova colonia che però fu distrutta durante la prima guerra mondiale. Ristrutturata, Roi ne annunciò la riapertura nel 1920.
Tutto cambiò con la nascita della RSI: il 10 dicembre 1943 il prefetto comunicò al presidente Roi che i locali della Colonia sarebbero stati requisiti per concentrarvi degli ebrei. Quello stesso giorno le forze dell’ordine italiane provvedevano all’arresto di alcuni degli ebrei precedentemente internati in provincia. Il campo, la cui direzione venne affidata ad un funzionario di Pubblica Sicurezza, Silvio Toniolo, venne aperto ufficialmente il 20 dicembre e tre giorni dopo arrivarono a Tonezza 45 ebrei accompagnati da 5 carabinieri [34].
I due teatri
Alcuni nomi emergono da un certificato del medico del campo del 25 dicembre. Si tratta di Giannina Benvenisti, Ludovico Braun (Braum), Renata Geltner, Walter Dannenbaum, Jakob Schatz, Menasse Stabholz, Bernardo Cszopp, Enrica Rubinfeld, Marina Eskenasi, Rita Baruch. Per rintracciare tutti i nomi, però, è necessario incrociare più fonti. La maggior parte di queste riporta solo il numero totale di internati [35], mentre l’unico elenco completo [36] è quello inviato il 5 febbraio 1944 dal capo della provincia di Vicenza, Neos Dinale, al Ministero dell’Interno. Veniamo così a sapere che dei 43 ebrei consegnati ai nazisti il 30 gennaio 1944, 35 si trovavano nella colonia di Tonezza e 8 presso il teatro Olimpico di Vicenza. Un elenco, inviato il 16 marzo 1956 dal questore di Vicenza Miccolis al Ministero dell’Interno, riporta gli stessi 43 nomi, ribattuti con alcune differenze, ma questa volta al posto dell’Olimpico viene indicato come secondo luogo di internamento il teatro Eretenio.
Per l’Olimpico, oltre al citato documento di febbraio, l’altro riferimento è quello di Walter Landmann, appartenente all’unica famiglia del gruppo di Tonezza che riuscì a salvarsi. Nel suo racconto [37] ha dichiarato che, arrivando da Tonezza, il gruppo si fermò davanti all’Olimpico “dove erano temporaneamente custodite delle persone malate”. All’Olimpico, infine, fa cenno anche Liliana Picciotto [38].
Per quanto riguarda l’Eretenio, sappiamo che durante il secondo conflitto mondiale il teatro rimase chiuso. Il Comune, che dal 1942 divenne proprietario del teatro a seguito della donazione degli Accademici della Società Eretenia [39], utilizzò i locali come deposito dei mobili degli ebrei internati [40]. Dopo l’8 settembre molte tracce portano effettivamente all’Eretenio. In una lettera inviata il 23 maggio 1945 alla Comunità ebraica di Padova, Lyana Mezzatesta di Sossano chiese informazioni sugli ebrei già internati nella sua città, tra cui i tre fratelli Silvio, Flora e Rita Baruch. Colpisce il livello di conoscenza dei fatti:
Il giorno 10 del mese di dicembre 1943 furono arrestati in Sossano (…) in seguito a ordine telegrafico da parte della Questura di Vicenza, alcuni ebrei internati civili di guerra di nazionalità ex-jugoslava. Il giorno 11 dello stesso mese gli stessi vennero trasportati a Vicenza ove restarono fino al 23.12.43 presso il Teatro Eretenio [41].
La Mezzatesta espose anche l’intero percorso degli ebrei, condotti a Tonezza e poi prelevati dai tedeschi. Accanto a questa, esiste una testimonianza diretta di uno degli ebrei arrestati, il sessantaduenne Giovanni (Ivan Gelza) Oblath, che scrisse di suo pugno, dal teatro Eretenio, due lettere destinate alla Questura di Vicenza [42] per evidenziare i problemi di salute legati ad una frattura alla gamba destra. Con la prima, datata 13 dicembre 1943, faceva riferimento al parere del dottore comunale di Sossano, Carlotto, e ad un attestato rilasciato dal dott. Giuseppe Peronato di Noventa Vicentina che avevano suggerito l’Istituto ortopedico di Mezzaselva di Roana come luogo di cura. Con la seconda lettera, del 15 dicembre 1943, Oblath si rivolse nuovamente alla Questura per chiedere di essere visitato dal dottor Giorgio Pototschnig, primario del San Bortolo di Vicenza. Inevitabile osservare che, al di là dell’effettivo problema fisico di cui Oblath parlava già dall’agosto del 1942, fece riferimento a luoghi e medici grazie ai quali avrebbe potuto trovare una possibile via di fuga.
Altrettanto chiaro il contenuto della relazione su «situazione politica, funzionamento dei servizi di P. S., attività della Polizia nella Provincia di Vicenza» redatta il 24 dicembre 1943 dall’ispettore Giuseppe Antoci e destinata al capo della Polizia:
Attualmente si trovano fermati e custoditi nell’ex teatro “EROTENE” in attesa di essere trasferiti nel campo di concentramento che sta per essere approntato nella colonia Umberto I di Tonezza, 30 ebrei adulti di sesso maschile stranieri e 4 di nazionalità italiana [43].
Nessun riferimento a donne e bambini.
Non si può dimenticare, inoltre, la testimonianza di padre Giacinto Evarelli che al processo contro Neso Dinale dichiarò:
Mi autorizzò a fare visita agli ebrei che erano ricoverati nel teatro Eretenio per arrecare loro il conforto ed aiuto del caso [44].
Infine, un’ulteriore prova della presenza degli ebrei all’Eretenio ci viene dalle memorie di don Antonio Frigo che scrisse:
Le spedizioni cessarono nell’aprile del ’44. In quel mese tutte le famiglie di ebrei che vivevano nei paesi della nostra provincia e che provenivano da quasi tutta l’Europa, furono portate al Teatro Eretenio e stipate in grandi stanzoni. (…). Sono andato a trovare spesso queste famiglie perché ne conoscevo parecchie di quelle che avevano soggiornato ad Arsiero. Sono rimaste in quelle brutte stanze più di un mese. È sbrigativo dire semplicemente che vivevano nel terrore. È questo uno dei più brutti ricordi della mia vita. C’erano parecchi bambini, ai quali evidentemente non era sfuggita l’angoscia dei loro genitori. Stringeva il cuore il vedere che non erano bambini come gli altri. (…). Un pomeriggio sono andato all’Eretenio per la solita visita. Non c’era più nessuno. Solo operai del Comune che con delle pompe lavavano i pavimenti. Mi fu detto che soldati tedeschi li avevano prelevati tutti il giorno prima e portati alla stazione ferroviaria. Sono corso là e uno dei dirigenti del traffico mi disse che erano stati stipati in carri merci e fatti partire immediatamente. Si è saputo dopo la guerra che erano finiti ad Auschwitz. (…). Il giorno dopo la mia liberazione [don Antonio Frigo era stato arrestato e portato nel carcere di San Biagio il 4 febbraio 1945, ndr.], io e due mie colleghi di Seminario siamo andati a vedere i danni dei bombardamenti nella zona della stazione ferroviaria. Ritornando ho voluto passare davanti all’Eretenio. Anche questo era stato colpito e la parte dove si trovavano gli ebrei era stata rasa al suolo. Ho ringraziato Dio che gli ebrei fossero già partiti da mesi, evitando una brutta fine. Ma quando ho saputo che cosa ha significato per loro finire ad Auschwitz, ho sentito vivo dispiacere che non fossero periti in un istante sotto le bombe. Riprovo i brividi di allora scrivendo questa cosa, che pare uno sproposito. Ma purtroppo non è uno sproposito [45].
La sentita testimonianza di don Antonio Frigo ci permette di conoscere ulteriori dettagli sulla presenza degli ebrei all’Eretenio, ma contiene alcuni errori. Quello più evidente si riferisce al periodo. Nell’aprile del 1944 l’Eretenio era stato già bombardato e distrutto. Tutti i dati convergono sul periodo che va dal dicembre 1943 al gennaio 1944. Sulla durata della permanenza, invece, le informazioni coincidono se si pensa al fatto che don Frigo parla di “più di un mese”. Allo stesso modo il riferimento alla stazione ferroviaria e alla sua corsa è molto significativo e indica un motivo in più per cui la scelta ricadde sull’Eretenio, luogo decisamente più vicino alla stazione rispetto all’Olimpico.
L’altra questione che si può sollevare leggendo le memorie di don Frigo è quella legata al numero di ebrei presenti all’Eretenio. Ovviamente non tutte le famiglie di ebrei presenti nel Vicentino furono portate all’Eretenio, ma solo quelle arrestate. Inoltre il numero delle presenze nel teatro cambia in base al periodo preso in esame. Dai fascicoli personali degli ebrei, sappiamo che le operazioni di polizia portarono i frutti più sostanziosi a partire dal 10 dicembre 1943 [46] e proseguirono fino all’ultimo giorno utile, il 30 gennaio 1944, quando furono fermati i coniugi Guido Orvieto e Angelina Caivano [47]. Considerato che gli ebrei furono condotti a Tonezza a partire dal 23 dicembre, appare evidente, come sottolineato nella relazione di Antoci, che gli arrestati furono tenuti all’Eretenio il tempo utile all’approntamento del campo di concentramento provinciale. Se spostiamo, invece, l’attenzione sugli 8 ebrei segnalati presso il teatro al momento della consegna ai tedeschi, si capisce subito il motivo per cui si trovavano ancora lì. Due, Caivano e Orvieto, erano gli ebrei italiani arrestati il giorno stesso della consegna ai nazisti; Ljudevit Braun era malato di diabete e aveva bisogno di cure continue; i coniugi Samuel Mangel e Sabine Schuskind erano anziani e probabilmente malati [48]; Leo Bloch e Olga Grunhut avevano rispettivamente 67 e 63 anni; Jostowitz Clara, 57 anni, era stata indicata tra i malati bisognosi di supplementi alimentari dal medico di Tonezza, Alessandro Magaraggia.
Si può quindi escludere che l’Olimpico sia stato a sua volta utilizzato come luogo di detenzione, anche se sarebbero necessari ulteriori approfondimenti. Tra l’altro i documenti del campo di Tonezza parlano sempre di 45 ebrei senza distinguerli in base al luogo in cui effettivamente furono presenti, probabilmente perché da un punto di vita amministrativo erano comunque afferenti alla direzione del campo.
La deportazione
Fatto sta che, dopo le drammatiche trattative tra il capo della provincia di Vicenza, Neos Dinale, e il comando germanico, il primo cedette alle richieste: «Al che ho fatto presente che non mi restava che dare disposizioni per l’esecuzione dell’ordine ed ho messo a disposizione del Sottufficiale delle S.S. gli automezzi necessari per il trasporto degli ebrei e i vivere richiesti» [49].
In conclusione, se più volte torna l’indicazione di 44-45 ebrei associati al campo di Tonezza, al momento della loro consegna ai tedeschi erano 43. Manca nell’elenco dei deportati il nome di Walter Dannenbaum [50], già internato a Montecchio Maggiore, arrestato il 13 dicembre e indicato anche nell’elenco del medico del campo pochi giorni dopo. Allo stesso modo andrebbe espunto dai deportati Coen Haim, internato a Posina, che non corrisponde ai suoi omonimi segnalati in altre ricerche [51] e, soprattutto, che è indicato come emigrato negli Stati Uniti [52] il 30 gennaio del 1950.
Se poi si escludono i tre membri della famiglia Landmann, rilasciati perché la madre, Barbara Eckl, era “ariana” e poi messisi in salvo, il totale dei deportati scende a 40.
Di alcuni di loro i documenti restituiscono poche informazioni. Si tratta in particolare dell’ebreo polacco Bernhard Czopp e dell’architetto ceco Kurt Buchsbaum. Il primo, nato nel 1879 a Leopoli (oggi L’viv in Ucraina), era diventato dal 1907 veterinario del servizio medico comunale di Bolzano [53]. Alla fine degli anni Trenta, Czopp, che in quel momento viveva in via della Torre 5, lasciò il lavoro. Le autorità gli ricordarono le sue origini ebraiche, nonostante non fosse iscritto alla comunità ebraica di Merano. Così il 29 agosto 1939 perse la cittadinanza italiana e fu espulso. Lo ritroviamo a Bassano del Grappa dove strinse amicizia con Giovanni Battista Baggio che dopo la sua deportazione continuò a chiedere sue informazioni, prima di contattare la Comunità ebraica di Venezia e poi l’Unione delle Comunità per segnalare che aveva con sé i risparmi che Czopp gli aveva affidato, compreso un libretto della succursale di Bassano della Cassa di Risparmio di Verona e Vicenza [54].
L’architetto Kurt Buchsbaum, nato nel 1891 a Cheb in Repubblica Ceca, ereditò dai genitori, Wilhelm e Flora Weil, l’azienda Hasenclever & Mattmann, acquisita nel 1916, e altre proprietà a Merano. Dopo la morte del padre avvenuta nel 1931, Kurt e sua madre vissero sostanzialmente indisturbati fino al censimento del 1938. Tredici mesi dopo persero la cittadinanza italiana. Mentre di Flora si perdono le tracce, i documenti dell’Archivio di Merano riportano che Kurt si spostò ad Ora nell’estate del 1939 e poi in altre province italiane [55]. Infine, il suo nome compare tra gli ebrei di Tonezza del Cimone, ultima tappa prima di essere inghiottito nella Shoah.
Va ricordato, infine, che al campo di Tonezza è legata anche la storia di Ettore Graziani, ebreo italiano, nato a Vittorio Veneto nel 1876, ma residente a Schio. Capo dell’ufficio telefoni della TELVE, Graziani aveva perso il lavoro a causa delle leggi razziali e si dedicò a piccoli lavori di elettricista. Nel dicembre del 1943 fu arrestato dai carabinieri e condotto a Tonezza. Considerate le precarie condizioni di salute, fu trasferito all’Ospedale Baratto di Schio, ma ciò non bastò: arrestato nel gennaio del 1945, fu condotto nel campo di Bolzano dove morì il 16 aprile 1945 [56].
I dati complessivi ci dicono che il 7% degli ebrei stranieri internati nel vicentino furono deportati, con delle notevoli differenze tra i comuni [57]. Numeri che rimandano ad una riflessione su quanto accadde nelle singole realtà, oltre che sulle condizioni anagrafiche e di salute degli ebrei arrestati [58] a cui si è già accennato.
In realtà, la “distruzione” degli ebrei del vicentino fu più ampia se si aggiungono coloro che, arrestati in zona o fuggiti verso il centro-sud, furono fermati, portati nel campo di Fossoli o di Trieste e poi deportati ad Auschwitz [59]. Altri ancora furono uccisi alle Fosse Ardeatine [60] o in altre circostanze [61]. In questo modo la percentuale di ebrei già internati in provincia di Vicenza e poi deportati sale al 9% [62].
Un pensiero va anche a due ebree vicentine, Carlotta Cantoni e Margherita Luzzatto [63], scomparse nella Shoah.
La dimensione della tragedia fin qui descritta non deve far dimenticare tutti gli ebrei che riuscirono a mettersi in salvo contando sulle proprie risorse umane e sociali così come su una rete formale o meno di “Giusti”. Non tutte le storie sono state ricostruire e sicuramente molte sono le ricerche che ancora ci attendono. Così, accanto ai “Giusti tra le nazioni” che ben conosciamo come don Michele Carlotto, Rinaldo Arnaldi e Torquato Fraccon, lo scavo storico ci restituisce, e lo farà ancora in futuro, quelle che furono le vie di fuga per garantirsi la salvezza. Se molti si diressero verso la Svizzera o verso il centro-sud Italia, non mancarono coloro che si nascosero nella stessa provincia di Vicenza. A questo proposito val la pena ricordare le vicende della famiglia Strasser. Andrea, terminati gli studi a Milano, e dopo essere stato raggiunto da quella che sarebbe diventata sua moglie, Maria Klein, alla metà degli anni Trenta era riuscito a costruire una vita dignitosa e rispettabile diventando medico all’Istituto di Santa Corona di Pietra Ligure. Il RDL del 7 settembre 1938 precipitò gli Strasser in una nuova dimensione. Perso il lavoro a causa dell’«appartenenza alla razza ebraica», per Andrea si spalancarono le porte dell’internamento fascista: prima nel carcere di San Vittore, subito dopo nel campo di Ferramonti di Tarsia, infine, con la moglie e la piccola Anna Maria, nei comuni di Noventa Vicentina e Canove di Roana. Dopo l’armistizio, attesero fino a i primi di dicembre per far perdere le proprie tracce. Aiutati dal prof. Campiglio, Andrea fu nascosto nel convento di Monte Berico, mentre Maria e la bambina nel Collegio delle Dame Inglesi. Andrea notò che non era l’unico “ospite” del convento e capì che i frati ricevevano delle soffiate sui controlli di fascisti e nazisti. Lo stesso padre Evarelli, durante la già citata deposizione al processo Dinale, confermò che quest’ultimo sapeva che a Monte Berico si nascondevamo ebrei e «rifugiati politici» e avvisava il frate «quando doveva essere allontanato qualche ebreo perché ricercato» [64]. Dopo due settimane Andrea fu così spostato nel convento di Follina fino a quando non riuscì a tornare a Milano dove si riunì con la moglie e la figlia. Purtroppo fu arrestato alla fine di febbraio del 1945 e rinchiuso nuovamente a San Vittore. Non solo era ebreo, ma dal luglio del 1944 faceva parte del Corpo Volontari per la libertà, in quanto partigiano con funzione di medico. Come ha scritto lo stesso Andrea, «il caso ha voluto che uscissi vivo da quel macello ed ora, non più lontano dall’estremo mio traguardo e dopo oltre trenta anni di vita migliore vissuta in libertà, penso che con te vicino e con la nonna e Anna e tuo papa e i tanti buoni amici ancora rimasti – sia valsa la pena di continuare a vivere» [65].
La ritrovata speranza, la ricostruzione della vita, la possibilità di incamminarsi verso un orizzonte di libertà ci ricorda «i gridi di allegria» che salivano da Orano alla fine della “peste”. Eppure il dottor Rieux «sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce e che forse verrebbe un giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice» [66]. Camus, non diversamente da Primo Levi [67], ci mette in guardia sul possibile ritorno del bacillo della dittatura, dell’odio e del razzismo e soprattutto ci spinge ad un profondo lavoro di riflessione e autoanalisi proprio perché ognuno di noi può nutrire la “peste” e farsene portatore. Scriveva Etty Hillesum, morta lo stesso giorno in cui la RSI emanava l’ordine di polizia numero 5: «Il marciume che c’è negli altri c’è anche in noi, continuavo a predicare; e non vedo nessun’altra soluzione, veramente non ne vedo nessun’altra, che quella di raccoglierci in noi stessi e di strappar via il nostro marciume. Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi. È l’unica lezione di questa guerra: dobbiamo cercare in noi stessi, non altrove» [68].
Note
[1] Dodici furono uccisi all’arrivo ad Auschwitz, ventisette morirono in data e luogo ignoto o comunque successivamente all’arrivo, uno morì dopo la liberazione del campo.
[2] RAUL HILBERG, La distruzione degli ebrei d’Europa, vol. II, Torino, Einaudi, 1999, p. 1353.
[3] MICHELE SARFATTI, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino, Einaudi, 2000, pp. 176-180. Cfr. anche RENZO DE FELICE, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 2020, pp. 589-590.
[4] Cfr. ENZO COLLOTTI, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 117 e SARFATTI, Gli ebrei nell’Italia fascista, p. 183 e 185-187. Si veda il testo della circolare del 15 luglio 1943 pubblicato in DE FELICE, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, pp. 598-599.
[5] Si veda KLAUS VOIGT, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, vol. II, Scandicci, La Nuova Italia, 1996, pp. 179-180, 388-389 e 392-396; SARFATTI, Gli ebrei nell’Italia fascista, p. 174.
[6] Si veda VOIGT, Il rifugio precario, vol. II, pp. 389-391 e SARFATTI, Gli ebrei nell’Italia fascista, p. 175.
[7] Cfr. SIMON LEVIS SULLAM, I carnefici italiani. Scene dal genocidio degli ebrei, 1943-1945, Milano, Feltrinelli, 2016, pp. 41-47.
[8] KLAUS VOIGT, Il rifugio precario, Scandicci, La Nuova Italia, 1993, vol. I, p. 40.
[9] Ivi, p. 20. Si aggiunse poi la restrizione relativa al soggiorno nelle colonie italiane del marzo 1934, estesa all’Abissinia nel 1936.
[10] Ivi, p. 141.
[11] Archivio di Stato di Roma, Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, A16, b. 16. Si veda ANTONIO SPINELLI, Vite in fuga. Gli ebrei di Fort Ontario tra il silenzio degli alleati e la persecuzione nazifascista, Sommacampagna, CIERRE, 2015, pp. 36-38 e https://www.internamentoveneto.it/vite-in-fuga/vite-in-fuga-parte-seconda/.
[12] “Il Duce desidera che si preparino dei campi di concentramento anche per ebrei, in caso di guerra”. Si veda https://www.internamentoveneto.it/wp-content/uploads/2020/12/13-I-campi-di-concentramento-e-linternamento-libero.pdf (diapositiva 12).
[13] “1) appena dichiarato lo stato di guerra dovranno essere arrestate et tradotte in carcere le persone pericolosissime sia italiane che straniere di qualsiasi razza, capaci turbare ordine pubblico aut commettere sabotaggi attentati nonché le persone italiane aut straniere segnalate dai centri C.S. per l’immediato internamento; 2) delle persone arrestate dovrà essere segnalato telegraficamente numero Ministero inviando poi brevi rapporti con indicazioni motivi che ne hanno provocato il fermo et parere circa opportunità che siano destinate in una isola ovvero in campo concentramento oppure soltanto in comune terraferma, tenendo presente che essendo i posti delle isole limitatissimi le relative proposte dovranno essere ristrette ai casi reale et effettiva necessità. 3) Per le altre persone da internare dovrà essere provveduto volta per volta che se ne presenti la necessità segnalando i casi con rapporti at questo Ministero per le determinazioni. Raccomandandosi vivamente che il servizio di cui trattasi proceda con il massimo ordine et senza destare allarmismi in modo da dare la sensazione che ogni provvedimento è diretto a colpire casi isolati di effettiva pericolosità e non è la conseguenza di preoccupazioni d’ordine generale che non possono sussistere dato il clima fascista della Nazione”. La sintesi delle circolari del 1° e dell’8 giugno è presente in Voigt, Il rifugio precario, vol. II, cit., p. 7. Il testo integrale della circolare è presente su http://www.annapizzuti.it/normativa/testocircolari40.php.
[14] VOIGT, Il rifugio precario, vol. II, pp. 7-8.
[15] Si veda la diapositiva 7 di https://www.internamentoveneto.it/wp-content/uploads/2020/12/13-I-campi-di-concentramento-e-linternamento-libero.pdf.
[16] Va ricordato brevemente che le misure di internamento trovavano il loro fondamento nella legge di guerra firmata da Vittorio Emanuele III l’8 luglio 1938 ed in particolare negli articoli 284 e 286.
[17] ACS, MI, DGPS, DAGR, Massime M4, Mobilitazione Civile, b. 99. Il testo è pubblicato sulla pagina internet https://www.internamentoveneto.it/wp-content/uploads/2020/12/13-I-campi-di-concentramento-e-linternamento-libero.pdf.
[18] Cfr. https://collections.arolsen-archives.org/en/archive/80441679/?p=1&s=neiger%20giulio&doc_id=80441680.
[19] Per maggiori approfondimenti sulla salvezza della famiglia Neiger si veda https://www.ladigetto.it/rubriche/da-una-foto-una-storia/106956-giorno-della-memoria%3A-l%E2%80%99oro-di-mori-%E2%80%93-di-maurizio-panizza.html.
[20] Si veda http://www.annapizzuti.it/database/ricerca.php?a=view&recid=0.
[22] Cfr. COLLOTTI, Il fascismo e gli ebrei, pp. 117-125 e SARFATTI, Gli ebrei nell’Italia fascista, pp. 205.
[23] Si fa qui riferimento a tre documenti del 1942. Nel primo, redatto il 21 agosto, Mussolini diede il “nulla osta” alla liquidazione degli ebrei presenti in Croazia; nel secondo, del 4 ottobre, lo stresso Mussolini diede l’ordine di respingere gli ebrei che tentavano di rifugiarsi nei territori controllati dall’Italia nella ex Jugoslavia; nell’ultimo, del 4 novembre, “visto dal Duce”, si dice chiaramente che gli ebrei croati della zona di occupazione tedesca venivano deportati e uccisi. Si veda SARA BERGER-MARCELLO PEZZETTI (a cura di), Solo il dovere oltre il dovere. La diplomazia italiana di fronte alla persecuzione degli ebrei 1938-1943, Roma, Gangemi Editore, 2019 e https://www.michelesarfatti.it/documenti-e-commenti/Benito-Mussolini-e-il-respingimento-degli-ultimi-ebrei-croati-verso-la-morte.
[24] Prefetto del Cattaro, 26 marzo 1942. Si veda il testo su https://www.internamentoveneto.it/wp-content/uploads/2020/12/13-I-campi-di-concentramento-e-linternamento-libero.pdf (diapositiva 18).
[25] VOIGT, Il rifugio precario, vol. II, pp. 35-36.
[26] Da questa zona entrarono in Italia, fino al luglio del 1943, 1300-1400 ebrei stranieri, la maggior parte nelle province di Sondrio, Alessandria, Aosta, Bergamo, Modena, Rovigo, Treviso e Vicenza. Ivi, p. 34.
[27] Ivi, p. 43.
[28] Sui campi di concentramento si veda VOIGT, Il rifugio precario, vol. II, pp. 51-82 o il volume di CARLO SPARTACO CAPOGRECO, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Torino, Einaudi, 2004. Sulle fasi dell’internamento nei comuni si veda VOIGT, Il rifugio precario, vol. II, pp. 82-99.
[29] Si veda https://www.internamentoveneto.it/mesmerize/luoghi-di-internamento-del-veneto/.
[30] Si veda https://www.internamentoveneto.it/mesmerize/ebrei-stranieri-internati-in-veneto/.
[31] “Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica”.
[32] Non va dimenticato che la RSI si occupò anche della spoliazione dei beni ebraici. Per la provincia di Vicenza si veda https://www.internamentoveneto.it/portfolio/la-confisca-dei-
beni-ebraici-in-provincia-di-vicenza/.
[33] Per una storia completa sul campo di Tonezza si veda ANTONIO SPINELLI, Il campo di concentramento provinciale di Tonezza del Cimone in PAOLO TAGINI, Le poche cose. Gli internati ebrei nella provincia di Vicenza 1941-945, Sommacampagna, CIERRE-ISTREVI, 2006, pp. 191-223.
[34] Questo è il numero totale delle presenze che torna spesso nei documenti dell’Archivio Comunale di Tonezza del Cimone, senza ulteriori specificazioni.
[35] La «relazione settimanale sulla situazione politica ed economica della provincia» di Vicenza disposta dalla Questura in data 29.12.1943 cita 44 «elementi di razza ebraica», di cui 4 italiani e 40 stranieri; i documenti dell’Archivio Comunale di Tonezza attestano la presenza di 45 ebrei nella colonia; la lettera del dott. Roselli al Capo della Polizia (07.01.1944) parla di 44 internati.
[36] In LILIANA PICCIOTTO, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), Milano, Mursia, 2002, sono rintracciabili 40 nomi. Mancano, infatti, quelli di Clara Jostowitz, Leo Bloch e la moglie Olga Grunhut, oltre a quelli di Haim A. Coen e Walter Dannenbaum.
[37] MARINO SMIDERLE, “Mi avete resuscitato dall’olocausto”. Per la storia è morto nel lager. L’abbiamo trovato in Inghilterra, «Giornale di Vicenza», 5 febbraio 2004; Comune di Thiene, allegato a Le porte della memoria 2014. Testimonianze e diari raccolti dall’Associazione Amici della Resistenza, p. 16.
[38] Liliana Picciotto, Il libro della memoria., n. 169, p. 974. La Picciotto afferma che Klaus Voigt le segnalò l’uso dell’Olimpico per 8 ebrei nella seconda quindicina di marzo 1944, dato in contrasto con la comunicazione di Neos Dinale risalente al 5 febbraio.
[39] Atto n. 5863 del 22 luglio 1942 presso il notaio Boschetti. Archivio del Teatro Eretenio, TE.20 Dono del marchese Giuseppe Roi, Fatture e ricevute di pagamento 1928-1944.
[40] REMO SCHIAVO, Il teatro Eretenio tra cronaca e storia nel bicentenario della inaugurazione (1784), Vicenza Accademia Olimpica, 1983, p. 297.
[41] ACEPD, b. Deportati.
[42] ASVI, fondo Questura 1941-1945, Internati civili ebrei, f. Sossano, sf. Oblath.
[43] ACS, Ministero dell’Interno, DGPS DAGR, RSI 1943-1945, b. 8, f. Operazioni di polizia nella provincia, Vicenza 1944.
[44] Archivio della Fondazione Ugo Spirito, fondo Ottavio Dinale, subfondo Neos Dinale, Atti processo collaborazionismo, Corte straordinaria d’Assise di Vicenza – Verbale di costituzione della Corte d’Assise e successivo dibattimento, 11 ottobre 1945.
[45] DON ANTONIO FRIGO, Ricordi. Perché non siano come suono di corno che muore lontano nel vento, Vicenza, Edizioni nuovo progetto, 1991, pp. 115-116. Si veda tutto il capitolo XVIII pp. 112-119.
[46] Secondo i documenti il primo ad essere fermato fu proprio Giovanni Oblath, trattenuto dal 30 novembre 1943; il 10 dicembre 1943 ci furono 14 arresti (8 ad Albettone, 4 a Barbarano, 1 a Sossano e ad Arsiero), l’11 scesero a 5 (tutti di Sossano), il 13 a 3 (2 a Malo, 1 a Montecchio), per poi risalire a 8 il 16 dicembre (tutti di Arsiero); un altro ebreo di Roana fu fermato il 17, mentre il 20 ne furono arrestati 4 (3 di Sossano, 1 di Lusiana); il 10 gennaio fu arrestato un ebreo già internato ad Albettone. Dal 10 dicembre era sorvegliato presso l’ospedale di Montagnana Ludovico Braun (Braum) già internato a Noventa Vicentina; il 31 dicembre fu accompagnato alla Questura di Vicenza. In altri 5 casi non è disponibile la data di arresto (2 ebrei già internati a Lonigo, 1 a Posina e 2 di cui non si conosce il precedente luogo di internamento).
[47] Liliana Picciotto, ne Il libro della memoria, p. 167 e 479, riporta per i coniugi due dati diversi: Angelina sarebbe stata arrestata a Padova il 30 gennaio 1944 e poi condotta a Vicenza, mentre Guido risulta fermato a Verona nel mese di gennaio.
[48] Sulla scheda compilata per lo Yad Vashem la figlia della coppia, Mary Schlein annotò che furono deportati il 13 dicembre dall’ospedale di Malo. Si tratta della scheda dedicata a Samuele Mangel presente su https://yvng.yadvashem.org/nameDetails.html?language=en&itemId=594834&ind=1. Forse la figlia si riferiva all’ospedale di Schio.
[49] Cfr. SPINELLI, Il campo di concentramento provinciale di Tonezza del Cimone, pp. 218-220.
[50] Il suo nome è assente sia da Il libro della memoria sia dal database dello Yad Vashem.
[51] Il dato già presente nel database “I nomi della Shoah italiana” (non più attivo), si trova ora nella Digital Library del CDEC.
[52] Si veda il documento presente sul sito degli Arolsen Archives: https://collections.arolsen-archives.org/en/archive/87898657/?p=1&s=coen%20haim%201905&doc_id=87898657.
[53] All’inizio degli anni Venti, il suo ambulatorio si trovava in Weggensteinstrasse 20, mentre negli anni Trenta in via Ca’ de’ Bezzi 10, l’attuale Andreas Hofer Strasse. Le informazioni sono tratte da JOACHIM INNERHOFER-SABINE MAYR, Mörderische Heimat, Verdrängte Lebensgeschichten jüdischer Familien in Bozen und Meran, Bolzano, Raetia, 2015, pp. 572-574.
[54] Si vedano i risultati della Commissione Anselmi sui beni sottratti agli ebrei, consultabili su http://www3.lex.unict.it/radies/documenti/relazione_commissione.pdf. A p. 193 si parla di Czopp. Cfr. anche GISÈLE LÉVY, Looting Jewish Heritage in the Alpe Adria Region. Findings from the Union of the Italian Jewish Communities (UCEI) Historical Archives, «Studi di Memofonte», n. 22/2019, p. 32 e 38.
[55] INNERHOFER-MAYR, Mörderische Heimat, pp. 559-562.
[56] Cfr. DARIO VENEGONI, Uomini, donne e bambini nel lager di Bolzano. Una tragedia italiana in 7982 storie individuali seconda edizione, Milano, Fondazione Memoria della Deportazione/Mimesis, 2005, p. 210. Il testo è consultabile sul sito http://www.venegoni.it/libro_bz.html o su www.deportati.it/static/pdf/libri/venegoni_sec.pdf. Si veda anche PICCIOTTO, Il libro della Memoria, p. 835. La storia di Ettore Graziani è ricostruita nei Quaderni della Resistenza, Schio 11, Gli ebrei a Schio, luglio 1980. Il nome di Ettore Graziani compare su un «elenco ebrei deceduti nel campo di concentramento di Bolzano nel 1944-1945 sepolti nel Cimitero Comunale di Bolzano – Reparto Israelitico», datato 21 febbraio 1946 (ACEPD, b. Deportati).
[57] Dal 100% di Barbarano Vicentino (4 su 4), all’82% di Albettone (9 su 11), al 50% di Sossano (10 su 20), al 20% di Arsiero (6 su 30), al 15% di Camisano Vicentino (5 su 33), al 12,5% di Lusiana (3 su 24) per arrivare al 6,6% di Noventa Vicentina (1 su 15), al 6,5% di Lonigo (4 su 61), al 5,8% di Roana (3 su 52), al 4,5% di Montecchio Maggiore (1 su 22) e al 4% di Malo (2 su 49).
[58] Ricordiamo che tra i deportati c’erano 5 minorenni (Rita Baruch e Renèe Geltner di 12 anni e mezzo; Erika Rubinfeld di 12 anni, Edward Rubinfeld di 6 anni, Marina Eskenasi di 2 anni e mezzo), e 11 ultrasessantenni (Samuel Mangel aveva 74 anni, Ivan Zaduk 72, Sabine Susskind 69, Jakub Schatz 68, Leo Bloch 67, Manasse Stabholz 64, Bernardo Czopp 64, Ljudevit Braun (Braum) 64, Olga Grunhert 63, Ivan Oblath 61, Ester Schwertfinger 60).
[59] Passarono da Fossoli Edvige/Feige Sturm, Ruth Ulmann, Paolo Schapira, Lepoldo Schapira, Karl Nasch, Raimondo Arbisser (sopravvissuto), Kurt Fischel, Paul Pokorni, Irene Zausmer (sopravvissuta), Rosabella Jakobstam, Richard Nelken. Da Trieste passò invece Nicolò Sagi. A questi si potrebbe aggiungere Markus Weiss, arrestato ma non deportato. Sui due Shapira si vedano gli aggiornamenti presenti qui.
[60] Morirono alle Fosse Ardeatine Pesach e Schachne Wald, Marian Reicher.
[61] Leon Steinlauf (partigiano ucciso dai fascisti). Bisogna ricordare, infine, che 4 ebrei morirono durante l’internamento.
[62] Rispetto al 2,3% nel Trevigiano, al 7% nel Padovano, al 32% nel Bellunese, al 34% nel Rodigino e al 62,5% nel Veronese. Nessuno degli ebrei stranieri internati nel Veneziano fu deportato.
[63] Carlotta Cantoni fu arrestata a Venezia il 5 dicembre 1943, condotta a Fossoli e deportata il 22 febbraio 1944 ad Auschwitz, con lo stesso convoglio di Primo Levi e dell’altra vicentina, Margherita Luzzatto, che era stata arrestata a Tirano il 13 dicembre 1943, detenuta nel carcere di Sondrio e in quello di Como. Entrambe le vicentine furono uccise all’arrivo ad Auschwitz il 26 febbraio 1944.
[64] Come nota 44.
[65] SPINELLI, Vite in fuga, p. 69.
[66] ALBERT CAMUS, La peste, Milano, Bompiani 1999, p. 235.
[67] “(…) ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre” in PRIMO LEVI, Appendice a Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 2005, p. 175.
[68] ETTY HILLESUM, Diario, Milano, Adelphi 2012, p. 366.